Gabriele D'annunzio - Opera Omnia >> Le vergini delle rocce |
ildannunzio integrale brano completo citazione delle fonti romanzi opere storiche e letterarie in prosa e lettere, premio nobel PROLOGO..... una cosa naturale vista
in un grande specchio. Leonardo da Vinci.
Su i luoghi dove la loro desolazione, la loro grazia e il loro orgoglio passavano ogni giorno, io colsi pensieri lucidi e terribili che le antichissime rovine delle città illustri non mi avevano mai dato. Per scoprire il mistero delle loro ascendenze remote, esplorai la profondità dei vasti specchi familiari dove talvolta esse non ravvisarono le loro proprie imagini soffuse d'un pallore simile a quello che annunzia il dissolvimento dopo la morte; ed a lungo scrutai le vecchie cose consunte su cui le loro mani fredde o febrili si posarono col medesimo gesto, forse, che avevano usato altre mani già fatte polvere da gran tempo. Tali io le conobbi nel tedio dei giorni comuni o sono esse le creature del mio desiderio e della mia perplessità? Tali io le conobbi nel tedio dei giorni comuni ed esse sono le creature del mio desiderio e della mia perplessità. Quel brano della trama di mia vita, che fu da loro medesime operato inconsapevolmente, ha per me tal pregio inestimabile ch'io voglio impregnarlo del più acuto aroma conservatore per impedire che il tempo in me lo impallidisca o lo distrugga. Per ciò oggi io tento l'arte. Ah, qual sortilegio dunque potrebbe dare la coerenza delle materie tangibili e durevoli a quel tessuto spirtale che le tre prigioniere ordirono nel tedio dei giorni aridamente e quindi a poco a poco riempirono con le imagini delle cose più nobili e più desolanti in cui la passione umana siasi mai rimirata senza speranza? Dissimili alle tre sorelle antiche perchè non figlie ma vittime della Necessità, tuttavia nel comporre la più ricca zona della mia vita esse parvero anche preparare il destino di colui che doveva venire. Insieme si affaticavano, quasi mai accompagnandosi con un canto ma men di rado versando lacrime visibili in cui erano sublimate le essenze delle loro anime inesauste e chiuse. Perchè fin dalla prima ora io le conobbi sovrastate da una cupa minaccia, colpite da un divieto tirannico, scoraggiate e anelanti e prossimamente periture, - tutte le loro attitudini e i loro gesti e le loro più vaghe parole mi sembrarono gravi e significare ciò che esse medesime ignoravano nella loro profonda inconsapevolezza. Piegandosi e rompendosi sotto il peso della loro maturità come in autunno gli alberi troppo carichi di frutti troppo grandi, esse non sapevano misurare tutto il loro male nè confessarlo. Le loro labbra gonfie d'angoscia non mi rivelarono se non una piccola parte dei loro segreti. Ma io seppi comprendere le cose ineffabili che diceva il sangue eloquente nelle vene delle loro belle mani ignude. E il ricettacolo delle virtù sarà pieno di
sogni e vane speranze. Leonardo da Vinci.
Per colui che sa di quali fecondazioni lente o subitanee, di quali inaspettate trasfigurazioni sia capace un'anima intensa comunicante con altre anime nelle vicissitudini dell'incertissima vita; per colui che, riponendo tutta la dignità dell'essere nell'esercitare o nel patire una forza morale, si avvicina al suo pari con l'ansia segreta di dominare o d'esser dominato; per ogni uomo curioso del mistero interiore, ambizioso di potere spirituale o bisognoso di schiavitù, nessuna ora ha l'incanto di quella in cui egli si muove con una vaga antiveggenza verso l'Ignoto e l'Infinito viventi, verso un oscuro mondo vivente ch'egli conquisterà o dal quale sarà assorbito. Io era per penetrare in un giardino chiuso. Le tre principesse nubili aspettavano quivi l'amico non veduto da lungo tempo, il quasi coetaneo a cui erano legate da qualche ricordo di puerizia e di adolescenza, l'unico erede di un nome non meno antico e non meno insigne del loro. Aspettavano così un loro eguale, un reduce dalle città magnifiche apportatore d'un soffio di quella grande vita a cui esse avevano rinunziato. E ciascuna forse nel suo cuore segreto aspettava lo Sposo. Veemente m'appare l'ansietà di quell'aspettazione, quando io penso alla nuda e cupa solitudine della casa in cui esse fino a quel giorno avevano languito, con le belle mani colme di tutti i beni della giovinezza, nel conspetto dei simulacri di non so qual vita e qual pompa regali che la follia materna creava per popolarne la vacuità degli specchi troppo vasti. Dalle infinite lontananze di quei dominii pallidi come stagni crepuscolari dove l'anima della madre forsennata si sommergeva delirando, non aveva ciascuna veduto apparire la forma giovenile e ardente dello Sposo che doveva toglierla all'oscura consunzione e sollevarla d'improvviso in un turbine di allegrezze? Così ciascuna, nel suo chiuso giardino, aspettava con inquietudine colui che doveva conoscerla per deluderla e per vederla perire senza possederla. «Ah, chi sarà di noi l'eletta?» Non mai forse - io penso - i loro belli occhi velati si fecero intenti come in quell'ora: occhi velati di malinconia e di tedio, ove la troppo lunga consuetudine delle apparenze sempre eguali aveva abolito la mobilità dell'indagine; occhi velati di mutua pietà, ove le forme degli esseri familiari si riflettevano senza mistero e senza mutamento, fisse nelle linee e nel colore della vita inerte. E d'improvviso ciascuna vide in ciascuna una creatura nuova, cinta di armi. Io non so quale evento sia più triste di queste rivelazioni fulminee che fa ai cuori teneri il desiderio della felicità. Respiravano le virtuose sorelle nel medesimo cerchio di dolore, premute dal medesimo destino; e, nelle sere gravi d'ambascia, a volta a volta l'una reclinava la fronte su l'omero o sul petto dell'altra, mentre l'ombra agguagliava la diversità dei volti e confondeva le tre anime in una sola. Ma, come il passeggiere annunziato era per porre il piede su la loro soglia deserta e già appariva alla loro attesa col gesto di colui che elegge e che promette, esse risollevarono il capo con un fremito e disciolsero le dita avvinte e scambiarono uno sguardo ch'ebbe la violenza d'una illuminazione repentina. E, mentre saliva dalla profondità delle loro anime turbate un sentimento ignoto ch'era privo della dolcezza primiera, esse conobbero alfine in quello sguardo tutta la loro grazia declinante, e qual fosse il contrasto delle loro sembianze illuminate dal medesimo sangue, e quanta notte si raccogliesse nel volume d'una capellatura addensata come un castigo su una nuca troppo pallida, e le meravigliose persuasioni espresse dalla curva di una bocca in silenzio, e l'incantesimo tessuto come una rete dall'ingenua frequenza d'un atto inimitabile, ed ogni altro potere. E un oscuro istinto di lotta le sbigottiva. Tali io imagino quelle che m'aspettavano nell'ora lucente. Il primo fiato della primavera appena tiepido, che aveva toccato i culmini aridi delle rocce, blandiva le tempie delle vergini inquiete. Sul grande claustro fiorito di giunchiglie e di violette, le fontane ripetevano il comento melodioso che da secoli le acque fanno ai pensieri di voluttà e di saggezza espressi nei distici leonini delle dedicazioni. Su taluni alberi, su taluni arbusti le foglie tenui brillavano come inviluppate d'una gomma o d'una cera diafana. Alle cose antichissime e immobili nel tempo, che soltanto potevano consumarsi, comunicavano una indefinita mollezza le cose che potevano rinnovellare. «Ah, chi sarà di noi l'eletta?» Divenute rivali in segreto dinnanzi all'offerta ingannevole della vita apparente le tre sorelle componevano la loro attitudine secondo il ritmo interiore della lor bellezza nativa già dal tempo minacciata, che forse soltanto in quel giorno esse avevano compreso nel suo senso verace, come l'infermo ode il suono insolito del sangue riempire l'orecchio premuto su l'origliere e comprende per la prima volta la musica portentosa che regge la sua sostanza peritura. Ma forse quel ritmo in loro non aveva parole. Sembra, tuttavia, che in me oggi sorgano distinte le parole di quel ritmo secondando le pure linee delle imagini ideali. «Un bisogno sfrenato di schiavitù mi fa soffrire» dice Massimilla silenziosamente, seduta sul sedile di pietra, con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco, «Io non ho il potere di comunicare la felicità, ma nessuna creatura viva e nessuna cosa inanimata potrebbe, come la mia persona tutta quanta, divenire il possesso perfetto e perpetuo di un dominatore. Un bisogno sfrenato di schiavitù mi fa soffrire. Mi divora un desiderio inestinguibile di donarmi tutta quanta, di appartenere ad un essere più alto e più forte, di dissolvermi nella sua volontà, di ardere come un olocausto nel fuoco della sua anima immensa. Invidio le cose tenui che si perdono, inghiottite da un gorgo o trascinate da un turbine; e guardo sovente e a lungo le gocce che cadono nel gran bacino svegliandovi appena un sorriso leggero. Quando un profumo m'involge e vanisce, quando un suono mi tocca e si dilegua, talvolta io mi sento impallidire e quasi venir meno, sembrandomi che l'aroma e l'accordo della mia vita tendano a quella medesima evanescenza. Pure talvolta la mia piccola anima è stretta dentro di me come un nodo. Chi la scioglie e l'assorbe? Ahi me, forse io non saprei consolare la sua tristezza; ma il mio volto ansioso e muto si volgerebbe sempre verso di lui spiando le speranze rinascenti nel suo segreto cuore. Forse non saprei spargere sul suo silenzio le sillabe rare, semi dell'anima, che in un attimo generano un sogno smisurato; ma nessuna fede al mondo vincerebbe d'ardore la mia fede nell'ascoltare pur quelle cose che debbono rimanere inaccessibili al mio intelletto. Io sono colei che ascolta, ammira e tace. Fin dalla nascita la mia fronte porta tra i sopraccigli il segno dell'attenzione. Dalle statue assise e intente ho appreso l'immobilità di un'attitudine armoniosa. Posso tenere a lungo gli occhi aperti e fissi verso l'alto perchè le mie palpebre sono lievi. Nella forma delle mie labbra è la figura viva e visibile della parola Amen.» «Io soffro» dice Anatolia «d'una virtù che dentro di me si consuma inutilmente. La mia forza è l'ultimo sostegno d'una rovina solitaria, mentre potrebbe guidar sicura dalle scaturigini alla foce un fiume colmo di tutte le abondanze della vita. Il mio cuore è infaticabile. Tutti i dolori della terra non riescirebbero a stancare il suo palpito; la più fiera violenza della gioia non l'infrangerebbe, come non l'estenua questa lunga e lentissima pena. Un'immensa moltitudine di creature avide potrebbe abbeverarsi nella sua tenerezza senza esaurirla. Ah perchè dunque il destino mi costringe a quest'officio così angusto, a questa pena così lenta? Perchè mi vieta l'alleanza sublime a cui il mio cuore anela? Io potrei assumere un'anima virile alla zona eccelsa, là dove il valore dell'atto e lo splendore del sogno convergono in un medesimo apice; io potrei estrarre dalla profondità della sua inconscienza le energie occulte, ignorate come i metalli nelle vene della pietra bruta. Il più dubitoso degli uomini ritroverebbe al mio fianco la sicurezza; colui che smarrì la luce rivedrebbe in fondo al suo cammino il segnale fermo; colui che fu percosso e mutilato ritornerebbe sano ed integro. Le mie mani sanno avvolgere la benda intorno alle piaghe e strapparla di su le palpebre oppresse. Quando io le tendo, il più puro sangue del mio cuore affluisce all'estremità delle mie dita magneticamente. Io posseggo i due doni supremi che amplificano l'esistenza e la prolungano oltre l'illusione della morte. - Non ho paura di soffrire e sento su i miei pensieri e su i miei atti l'impronta dell'eternità. Per ciò mi agita questo desiderio di creare, di divenir per l'amore colei che propaga e perpetua le idealità di una stirpe favorita dai Cieli. La mia sostanza potrebbe nutrire un germe sovrumano. In sogno, io vegliai tutta una notte misteriosamente sul sonno di un fanciullo. Mentre il suo corpo dormiva con un respiro profondo, io reggeva nelle mie palme la sua anima tangibile come una sfera di cristallo; e il mio petto si gonfiava di divinazioni meravigliose.» Dice Violante: «Io sono umiliata. Sentendo su la mia fronte pesare la massa dei miei capelli, ho creduto di portare una corona; e i miei pensieri sotto quel peso regale erano purpurei. La memoria della mia infanzia è tutta accesa d'una visione di stragi e d'incendii. I miei occhi puri videro correre il sangue; le mie narici delicate sentirono l'odore dei cadaveri insepolti. Una regina giovine e ardente, che aveva perduto il trono, mi sollevò nelle sue braccia prima di partire per un esilio senza ritorno. Da tempo io ho dunque su la mia anima lo splendore dei destini grandiosi e tristi. In sogno, ho vissuto mille vite magnifiche, passando per tutte le dominazioni sicura come chi ricalca un sentiere già cognito. Negli aspetti delle cose più diverse ho saputo scoprire segrete analogie con gli aspetti della mia forma, e per un'arte nascosta indicarle alla meraviglia degli uomini; e assoggettare le ombre e le luci, come le vesti e i gioielli, a comporre l'ornamento impreveduto e divino della mia caducità. I poeti vedevano in me la creatura speciosa, nelle cui linee visibili era incluso il più alto mistero della Vita, il mistero della Bellezza rivelata in carne mortale dopo intervalli secolari, a traverso l'imperfezione di discendenze innumerevoli. E pensavano: - Ben è questa la compiuta effigie dell'Idea che i popoli terrestri intuirono confusamente fin dalle origini e gli artefici invocarono senza tregua nei poemi, nelle sinfonie, nelle tele e nelle argille. Tutto in lei esprime, tutto in lei è segno. Le sue linee parlano un linguaggio che renderebbe simile a un dio colui che ne comprendesse la verità eterna; e i suoi minimi moti producono nei confini del suo corpo una musica infinita come quella dei cieli notturni. Ma eccomi umiliata, priva dei miei regni! La fiamma del mio sangue impallidisce e si estingue. Scomparirò, men venturosa delle statue che testimoniavano la gioia della vita su le fronti delle città scomparse. Mi dissolverò ignorata per sempre, mentre esse dureranno custodite nelle tenebre umide con le radici dei fiori e un giorno dissepolte sembreranno auguste come i doni della Terra all'anima estatica dei poeti genuflessi. Ho sognato omai tutti i sogni, e i capelli mi pesano più di cento corone. Stupefatta dai profumi, amo rimanere a lungo presso le fontane che raccontano di continuo la medesima favola. A traverso le ciocche dense che mi coprono gli orecchi, odo come in lontananza scorrere indefinitamente il tempo nella monotonia delle acque.» Così parlano in me le tre principesse mentre le evoco aspettanti nell'ora irrevocabile. Forse così, credendo che un messaggere della Vita s'affacciasse ai cancelli del chiuso giardino, ciascuna riconosceva la sua virtù, emanava la sua seduzione, ravvivava la sua speranza, esagitava il sogno ch'era per congelarsi. - Ora illuminata da una grande e solenne poesia, lucentissima ora in cui emergevano e splendevano dall'interno cielo dell'anima tutte le possibilità! I.Non si può avere maggior signoria che
quella di sè medesimo. Leonardo da Vinci.
E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo.
Lo Stesso.
Mi assicurai, dopo qualche esame, che la mia coscienza era giunta all'arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma: - Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. - E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s'accresce di bellezza e di dolore. Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio: - O Socrate, componi e coltiva musica. - Allora appresi che l'officio dell'uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel corso della sua vita una serie di musiche le quali, pur essendo varie, sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l'impronta d'un solo stile. Onde mi parve che da quell'Antico - eccellentissimo nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo vigore - potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento. Scrutinando sè medesimo e i suoi prossimi, colui aveva scoperto i pregi inestimabili che conferisce alla vita una disciplina assidua e intenta sempre in uno scopo certo. La sua somma saggezza mi sembra risplendere in questo: ch'egli non collocò il suo Ideale fuori della sua pratica quotidiana, fuori delle realità necessarie, ma ne formò il centro vivo della sua sostanza e ne dedusse le proprie leggi e secondo quelle si svolse ritmicamente negli anni, esercitando con tranquilla fierezza i diritti che quelle gli consentivano, separando - egli cittadino d'Atene, e sotto la tirannide dei Trenta e sotto la tirannide plebea - separando per deliberato proposito la sua esistenza morale da quella della Città. Egli volle e seppe conservarsi a sè medesimo fino alla morte. «Io non obbedisco se non all'Iddio» voleva significare «Io non obbedisco se non alle leggi di quello stile a cui, per attuare un mio concetto di ordine e di bellezza, ho assoggettato la mia natura libera.» Egli con mano ferma, artefice assai più raro di Apelle e di Protogene, riuscì a descrivere per una linea continua l'imagine integra di sè medesimo. E la sublime letizia nell'ultima sera non gli veniva dalla speranza di quell'altra vita ch'egli aveva rappresentata nel discorso, ma sì bene dalla visione di quella sua propria imagine che s'integrava con la morte. Ah perchè non rivive oggi in qualche terra latina il Maestro che sapeva con un'arte così profonda e così nascosta risvegliare ed eccitare tutte le energie dell'intelletto e dell'animo in quanti gli s'accostavano per ascoltarlo? Una strana malinconia mi occupava, nell'adolescenza, alla lettura dei Dialoghi, quando volevo raffigurarmi quel cerchio di discepoli avidi e inquieti intorno a lui. Ammiravo i più belli, ornati di più nitide eleganze, su i quali i suoi occhi rotondi e sporgenti - quei suoi occhi nuovi, in cui era una vista propria a lui solo - si posavano più spesso. Si prolungavano nella mia imaginazione le avventure dei forestieri venutigli di lontano come quel trace Antistene che faceva quaranta stadii al giorno per udirlo e come quell'Euclide che - avendo gli Ateniesi fatto divieto d'entrare in Atene ai cittadini di Megara e decretato per i trasgressori l'ultima pena - si vestiva di abiti muliebri, e così vestito e velato esciva dalla sua città in sul vespro, compiva un lungo cammino per trovarsi presente ai colloquii del Saggio, quindi all'alba riprendeva la sua via sotto la stessa larva pieno il petto di un entusiasmo inestinguibile. E mi commoveva la sorte di quel giovinetto elèo Fedone bellissimo che, fatto prigioniero di guerra nella sua patria e venduto a un tenitor di postriboli, dal luogo di vergogna erasene fuggito a Socrate, e aveva ottenuto per opera di lui il riscatto e partecipato alle feste del puro pensiero. Pareva a me veramente che quel gioviale maestro vincesse di generosità il Nazareno. Forse l'Ebreo, se i suoi nemici non l'avessero ucciso nel fiore degli anni, avrebbe scosso alfine il peso delle sue tristezze e ritrovato un sapor nuovo nei frutti maturi della sua Galilea e indicato al suo stuolo un altro Bene. Il Greco aveva sempre amata la vita, e l'amava, ed insegnava ad amarla. Profeta e divinatore quasi infallibile, egli accoglieva tutte le anime in cui il suo sguardo profondo scoprisse una forza, ed in ciascuna sviluppava ed esaltava quella forza nativa; cosicchè tutte, investite dalla sua fiamma, si rivelavano nella lor diversità possenti. Il suo più alto pregio era in quell'effetto di cui l'accusavano i nemici: che dalla sua scuola - dove convenivano l'onesto Critone e Platone uranio e il delirante Apollodoro e quel gentil Teeteto simile a un rivo d'olio fluente senza strepito - escissero il molle cirenaico Aristippo e Critia, il più violento dei Trenta Tiranni, e l'altro tiranno Caricle, e il meraviglioso violator di leggi Alcibiade che non conobbe limiti alla sua licenza meditata. «Il cuor mi balza assai più che ai coribanti, quando io odo i discorsi di costui» diceva il figliuolo di Clinia, leggiadra fiera coronata di edera e di violette, tessendo il più fulgido elogio con cui siasi mai deificato in terra un uomo, alla fine di un convito che dalla bocca del Sileno aveva raccolto la grande iniziazione di Diotima. Or quali energie avrebbe stimolate in me un tal maestro? Quali musiche mi avrebbe condotto a trovare? Primieramente mi avrebbe cattivato l'animo per quella eletta facoltà ch'egli possedeva di sentire anche il fascino della bellezza caduca e di distinguere con una qualche misura i piaceri comuni e di riconoscere il pregio che l'idea della morte conferisce alla grazia delle cose terrene. Puro ed austero quant'altri mai nell'atto dello speculare, egli possedeva tuttavia sensi così squisiti che potevan essere quasi direi gli artefici eleganti delle sue sensazioni. Non v'era nei banchetti - secondo Alcibiade ottimo giudice - alcuno che sapesse goderne com'egli sapeva. Sul principio del Simposio di Senofonte egli contempla con gli altri in lungo silenzio la perfetta bellezza di Autolico, quasi riconoscendo una presenza sovrumana. Con sottil gusto discorre, in séguito, dei profumi e della danza e del bere non senza ornare il discorso d'imagini vivide, come un saggio e come un poeta. Gareggiando quivi di venustà con Critobulo per gioco, esce in queste parole carnali: «Poichè ho le labbra tumide non credi tu che io abbia anche il bacio più molle del tuo?» Al Siracusano, che dà quivi spettacoli con una sua auleda e con una danzatrice mirifica e con un fanciullo ceteratore, consiglia di non più costringere quei tre giovini corpi a sforzi crudi e a prodigi perigliosi i quali non dànno piacere, ma di lasciare che la lor puerile freschezza secondando il suono del flauto prenda le attitudini proprie delle Grazie, delle Ore e delle Ninfe nelle insigni pitture. Così al disordine che stupisce egli oppone l'ordine che diletta, rivelandosi anche una volta cultore di musica e maestro di stile. Ma il suo ultimo gesto verso una cosa bella vivente amata e frale fu ben quel che più a dentro mi commosse nel tempo lontano e ancor mi commuove; perocché la mia anima talvolta ami allentare la sua tensione nelle malinconie voluttuose e nelle appassionate perplessità che può produrre in una vita ornata di nobili eleganze il sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare, del continuo perire. Nel dialogo dell'ultima sera non tanto mi conturba quel punto in cui Critone per incarico di chi deve propinar la cicuta interrompe il discorso del morituro ammonendolo di non riscaldarsi se vuol che il veleno abbia rapida efficacia e l'impavido ne sorride e va innanzi nell'indagine; né tanto mi è dolce quella musicale similitudine dei cigni indovini e del lor canoro giubilo; né tanto mi stupiscono i momenti estremi in cui l'uomo compie con brevi atti e con brevi detti la sua perfezione sì lucidamente e, come quell'artefice il quale abbia dato alla sua opera l'ultimo tocco, contento riguarda alfine la sua propria imagine - miracolo di stile - che rimarrà immortale in terra; quanto mi rapisce l'impreveduta pausa che segue i dubbii opposti da Cebete e da Simmia alla certezza manifestata dal maestro eloquente. Profonda pausa fu quella, in cui tutte le anime a un tratto cieche si profondarono come in un abisso, spentosi a un tratto il raggio di foco appuntato verso il Mistero da colui che stava per entrarvi. Indovinò il maestro la tristezza di quell'oscurazione subitanea ne' suoi fedeli; e le ali della sua idea per poco si ripiegarono. La realità gli si ripresentò nei sensi e lo ritenne anche per poco nel campo del finito e del percettibile. Egli sentì il tempo scorrere, la vita fluire. Forse i suoi orecchi raccolsero qualche romore della città magnifica, le sue nari aspirarono forse il profumo della nuova estate sopravveniente, come i suoi occhi si posarono sul bel Fedone chiomato. Poiché era seduto sul letto e accanto a lui sopra uno sgabello basso era Fedone, pose egli la mano sul capo del discepolo e gli accarezzò e gli premette i capelli sul collo, avendo già consuetudine di scherzare così con le dita in quella ricca selva giovenile. Non parlava ancora, tanto la sua commozione doveva essere intensa e rigata di delizia. Per mezzo di quella cosa bella vivente e caduca egli comunicava anche una volta con la vita terrena in cui aveva compiuto la sua perfezione, in cui aveva effettuato il suo ideale di virtù; e sentiva forse che nulla eravi oltre, che la sua esistenza finita bastava a sè stessa, che il prolungamento nell'eterno non era se non una parvenza - simile all'alone di un astro - prodotta dallo splendore straordinario della sua umanità. Non mai la capellatura del giovinetto d'Elide aveva avuto per lui un pregio tanto sublime. Egli ne godeva per l'ultima volta, dovendo morire; e anche sapeva che al dimane in segno di lutto sarebbe stata recisa. Disse alfine - e i suoi discepoli non gli avevano mai conosciuto nella voce un tal suono - disse: «Domani, o Fedone, tu te le taglierai queste belle chiome.» E il chiomato: «Sembra, o Socrate.» Questo sentimento - che súbito assunsi ed esaltai in me medesimo leggendo per la prima volta l'episodio nel dialogo platonico - mi divenne in séguito per via di analogie tanto complesso, e tanto l'ebbi familiare, ch'io ne feci il tema aperto o dissimulato delle musiche alle quali volli attendere. Così l'Antico m'insegnò la commemorazione della morte in un modo consentaneo alla mia natura, affinchè io trovassi un pregio più raro e un significato più grave nelle cose a me prossime. E m'insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere come i sinceri difetti per disporre le une e gli altri secondo un disegno premeditato, per dare a questi con pazienti cure un'apparenza decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E m'insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine, rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero. E m'insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò in fine la sua fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai. Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all'opera con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un'infinita serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria di Socrate nomavasi eugenéia, mi si rivelava più gagliardamente come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva l'orgoglio insieme con la contentezza, poiché pensavo che troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato o prima o poi la loro essenza volgare. Ma talvolta dalle radici stesse della mia sostanza - là dove dorme l'anima indistruttibile degli avi - sorgevano all'improvviso getti di energia così veementi e diritti ch'io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in un'epoca in cui la vita publica non è se non uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore. «Certo, è meraviglioso» mi diceva il demònico «che queste antiche forze barbare si sieno conservate in te con tanta freschezza. Esse sono ancor belle, se bene importune. In un altro tempo ti varrebbero a riprendere quell'officio che si conviene ai tuoi pari; ciò è l'officio di colui che indica una mèta certa e guida i seguaci a quella. Poiché un tal giorno sembra lontano, tu cerca per ora, condensandole, di trasformarle in viva poesia.» Assai lontano, in verità, appariva il giorno; poichè l'arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso d'una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi d'imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d'un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache l'onda delle basse cupidige invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l'attraversasse la fiamma di un'ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d'un bel delitto. La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un'anima senile ma ferma nella consapevolezza de' suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un'altra dimora inutilmente eccelsa dove un re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l'officio umile e stucchevole assegnatogli per decreto fatto dalla plebe. Una sera di settembre, su quell'acropoli quirina custodita dai Tindaridi gemelli, mentre una folla compatta commemorava con urli bestiali una conquista di cui non conosceva l'immensità spaventosa (Roma era terribile come un cratere, sotto una muta conflagrazione di nubi), io pensai: «Qual sogno potrebbero esaltare nel gran cuore d'un Re questi incendii del cielo latino! Tale che sotto il suo peso i cavalli giganteschi di Prassitele si piegherebbero come festuche.... Ah chi saprà mai abbracciare e fecondare la Madre col suo pensiero oltrapossente? A lei sola - al suo grembo di sasso che fu nei secoli l'origliere della Morte - a lei sola è dato generar tanta vita che se ne impregni il mondo un'altra volta.» E io vedevo, nella mia imaginazione, dietro le vetrate fiammeggianti del balcone regale, una fronte pallida e contratta su cui, come su quella del Còrso, era inciso il segno d'un destino sovrumano. Ma che valeva quel torbido bollore di passioni servili, considerato a traverso il silenzio da cui Roma è circonfusa per nove giri come da un fiume tartareo? Mi consolava d'ogni disgusto lo spettacolo sublime dell'Agro seminato delle più grandi cose morte, onde non sorge mai altro che fili d'erba, germi di febbre e formidabili pensieri. «Si agita dentro le mura urbane una gente nuova? Fra poco il vento mi porterà un po' di cenere. La mia sterilità è fatta di ceneri sovrapposte, preziose o vili. E non è anche escito dalla montagna il ferro per l'aratro che dovrà solcarmi.» Tanto mi significava il sepolcro delle nazioni. Tuttavia, se lo spettacolo di quel deserto vorace è un sinistro ammonimento per un popolo vano, esso è per il solitario l'inspiratore delle più sfrenate ebrezze che possano trascinare un'anima. Fuma dalle fenditure di quel suolo un vapor febrile che opera sul sangue di certi uomini come un filtro, producendo una specie di demenza eroica dissimile ad ogni altra. D'una tal demenza si sentivano invasi, io penso, i giovinetti delle bande garibaldine quando entravano nell'Agro. Essi d'un tratto si trasfiguravano, a un fuoco che li ardeva come sarmenti. E in taluno quella febbre magnificava l'intimo sogno così ch'egli cessava di far parte d'una torma compatta e unanime, per assumere una sua persona propria, un aspetto di combattente singolare, sacro a una gesta che gli pareva novissima. Bello e nobile di stirpe come un vergine eroe del tempo d'Ajace, taluno cadendo parve rinnovare in sè il tipo delle antiche idealità guerriere ma accresciuto d'un ardore senza esempio, che non gli veniva se non dal premere quel suolo. Gli invidiai l'evento favorevole, che a me mancava. Più volte, dopo una meditazione esaltante, divorato da un furioso bisogno di prove, lanciai il mio cavallo contro una troppo alta maceria e, superando il pericolo inutile, sentii che sempre e dovunque avrei saputo morire. Ricordo, come uno dei periodi più intensi nella mia vita, un autunno trascorso in quotidiana comunione col deserto laziale. Su quel teatro, ove dinnanzi agli occhi della mia mente si svolgeva un dramma di stirpi, passavano le vicende dei nuvoli rappresentate da grandi ombre mutabili comentando le mie finzioni interiori. Talvolta il silenzio si faceva così cupo e l'odore della morte su dalle gramigne putride mi ventava in viso così soffocante che io per istinto aderivo più forte al mio cavallo, quasi volendo riconoscermi vitale dalla sua vitalità impetuosa. Si lanciava allungandosi come un felino la bella bestia possente e pareva comunicarmi la fiamma inestinguibile che ardeva nel suo sangue puro. Allora, per qualche minuto, m'occupava l'ebrezza. Sviluppando l'impeto della corsa e del pensiero in una linea parallela alle gigantesche vertebre degli acquedotti, verso l'orizzonte ingombro, io sentivo nascere e dilatarsi in me un fervore indescrivibile, misto di orgasmo fisico, di orgoglio intellettuale, di speranze confuse; e secondava e moltiplicava le mie energie la presenza di quelle opere d'uomini, di quei superstiti testimonii umani su la totale morte, di quei terribili archi rossastri che cavalcano da secoli in una catena invitta contro la minaccia del cielo. Solo, senza consanguinei prossimi, senz'alcun legame comune, indipendente da ogni potestà familiare, padrone assoluto di me e del mio bene, io aveva allora profondissimo in quella solitudine - come in nessun altro tempo e in nessun altro luogo - il sentimento della mia progressiva e volontaria individuazione verso un ideal tipo latino. Io sentiva accrescersi e determinarsi il mio essere nei suoi caratteri proprii, nelle sue particolarità distinte, di giorno in giorno, sotto l'assiduo sforzo del meditare, dell'affermare e dell'escludere. L'aspetto della campagna, così preciso e sobrio nella sua membratura e nel suo colore, m'era di continuo esempio e di continuo stimolo, avendo pel mio intelletto l'efficacia di un insegnamento sentenziale. Ciascuno sviluppo di linee, in fatti, s'inscriveva sul cielo col significato sommario di una sentenza incisiva e con l'impronta costante di un unico stile. Ma la virtù mirabile d'un tale insegnamento era in questo: che, mentre mi portava a conseguire nella mia vita interiore l'esattezza di un disegno studiato, non inaridiva le fonti spontanee della commozione e del sogno, anzi le eccitava a un'attività più alta. D'improvviso un solo pensiero mi diveniva così intenso e così ardente che m'appassionava sino al delirio, come una speciosa forma creata da un prestigio; e tutto il mio mondo n'era sparso d'ombre e di luci nuove. Un getto di poesia erompeva dall'intimo empiendomi l'anima di musica e di freschezza ineffabili; e i desiderii e le speranze s'alzavano con un felice ardire. - Così talvolta su l'Agro il tramonto d'autunno versava la lava impalpabile delle sue eruzioni: lunghe correnti sulfuree solcavano il piano ineguale; le bassure s'empivano di tenebra, simili a voragini allora aperte; gli acquedotti s'incendiavano dalle basi ai fastigi; tutta la landa pareva tornata alle sue origini vulcaniche nell'alba dei tempi. - Così talvolta su dall'erba molle disfavillante al mattino le allodole si partivano subitamente cantando con un'ascensione vertiginosa, come spiriti di gioia in alto in alto rapiti nel più puro azzurro, invisibili ad occhi umani, e su la mia anima attonita la cupola del cielo echeggiava tutta quanta della loro ebrezza canora. Quella solitudine poteva dunque dare, più d'ogni altra, il grado di follia e il grado di lucidità necessarii a un asceta ambizioso: a un asceta il quale, rinnovellando il senso originario della parola austera, volesse come gli antichi agonisti prepararsi con rigida disciplina alle lotte e alle dominazioni terrene. «Quale ardua colonna, quale igneo deserto, qual cima inaccessa, qual caverna senza fondo, quale stagno febrifero, qual più ermo più nudo e più tragico luogo può vincer questo nella virtù di accendere la scintilla sacra della follia in colui che si creda destinato a incidere su nuove tavole nuove leggi per l'anima religiosa dei popoli?» io pensava, mentre i presentimenti delle forme increate sorgevano in me favorite da quel silenzio medesimo in cui si adunavano tante forme estinte di nostra umanità. «Qui tutto è morto, ma tutto può rivivere all'improvviso in uno spirito che abbia una dismisura e un calore bastevoli a compiere il prodigio. Come imaginare la grandezza e la terribilità d'una tal resurrezione? Colui il quale potesse contenerla nella sua coscienza parrebbe a sè medesimo e agli altri invasato da una forza misteriosa e incalcolabile, assai maggiore di quella che assaliva la Pitia antica. Per la sua bocca non parlerebbe il furor d'un dio presente nel tripode, ma sì bene il genio stesso delle stirpi custode funereo d'innumerevoli destini già compiuti. Il suo oracolo non sarebbe uno spiraglio dischiuso verso un mondo soprasensibile ma l'ammonimento di tutte le saggezze umane mescolato al soffio della Terra, di questa prima vaticinatrice secondo il verbo di Eschilo. E un'altra volta le moltitudini si chinerebbero d'avanti all'apparenza divina della sua follia, non come in Delfo per sollecitare le oscure sentenze del dio obliquo, ma per ricevere il lucido responso della vita anteriore, quel responso che non diede il Nazareno. Troppo era ignaro costui e troppo era petroso il deserto ch'egli scelse per trovarvi la sua rivelazione, laggiù sotto le montagne della Giudea, alla riva occidentale del Mar Morto: luogo di rupi e d'abissi, privo d'ogni vestigio, cieco d'ogni pensiero. Non temeva gli sciacalli famelici il giovine solitario ma temeva i pensieri. La sua mano scarna sapeva mansuefare le bestie selvagge; ma qualche pensiero, se ardente e dominatore come quelli che errano nel deserto laziale, lo avrebbe divorato. Quando l'angelo malo lo spinse alla vetta della montagna e gli additò le contrade fertili sottoposte e gli indicò la direzione dei varii regni del mondo e le correnti profonde e vorticose del desiderio umano, egli chiuse le palpebre: non volle vedere, non volle sapere. Ma il Rivelatore deve estendere oltre ogni limite l'orizzonte della sua coscienza abbracciando e i giorni e gli anni e i secoli e i millennii perchè la sua verità, emanante dalla somma della vita vissuta dagli uomini fino all'ora presente, sembri un foco in cui possano raccogliersi armonizzarsi e moltiplicarsi le energie ascensionali del più gran numero di generazioni per proseguire più dirittamente e più concordemente verso idealità sempre più pure.» Anche m'accompagnava talvolta il fantasma di colui che un giorno credette di aver creato il nuovo Re di Roma. «Mancò» pensavo «mancò anche a questo sovrammirabile suscitatore di volontà eroiche e allegro vendemmiatore di sangue giovenile un esercizio ascetico sul sepolcro delle nazioni. S'egli avesse potuto per poco torcere il suo spirito dalle cose che l'incalzavano e inclinarlo verso le cose immobili, avrebbe forse scoperta un'idea più grande della sua persona mortale e l'avrebbe eletta regolatrice della sua gesta; e il suo latin sogno d'imperio si sarebbe addensato e fatto grave e tenace così che la forza degli eventi ed egli medesimo non avrebbero potuto dissiparlo e distruggerlo per sempre come fecero. Ma la sua idea, troppo legata alla sua vita cotidiana, troppo umana, doveva morire con lui. Egli non potè conoscere il segreto per cui l'uomo prolunga nel tempo l'efficacia dell'atto. Veementi quant'altri mai erano gli impulsi che partivano dall'uomo, ma breve e malcerto era il loro propagarsi perchè essi avevano origine in un centro di potenze spontanee non sottoposte a nessun concetto superiormente formato da un ordine severo di meditazioni. La sua opera non fu quindi superiore a lui stesso e non durò se non quanto può durare una strage. I vecchi oracoli regolarono il suo destino. Il responso pronunciato dalla Pitia intorno alle sorti di Corinto potè, dopo millennii, valere anche per lui: - Un'aquila ha concepito posando sopra una rupe; e partorirà un fierissimo leone, cupido di carne umana, e che opererà molta strage. - Egli non fece se non obbedire a questo fato, come il tirannello Cipselo. E il Re di Roma si dileguò come un filo di fumo, vanissimamente.» Di tal colore erano i pensieri che mi suscitava l'aspetto di un luogo il qual fu - secondo il verbo di Dante - dalla stessa natura disposto all'universale imperio: ad universaliter principandum. E, mentre mi tornavano alla memoria gli argomenti danteschi a dimostrare il buon diritto della dominazione romana, occupava la cima del mio intelletto quella sentenza che nella sua forma esatta e rigida i popoli latini, se volenterosi di rinascere, dovrebbero adottare a norma dei loro istituti di vita: - Maxime nobili, maxime præesse convenit; al massime nobile si conviene massime essere preposto. E io pensava, accompagnato dal grande e tirannico spirito: «O venerando padre di nostro eloquio, tu avevi fede nella necessità delle gerarchie e delle differenze tra gli uomini; tu credevi alla superiorità della virtù trasferita per ragione ereditaria nel sangue; fermamente credevi a una virtù di stirpe la qual potesse per gradi, d'elezione in elezione, elevar l'uomo al più alto splendore di sua bellezza morale. Esponendo la genealogia di Enea, tu vedesti nel «concorso del sangue» una certa predestinazion divina. Ora, per qual misterioso concorso di sangui, da qual vasta esperienza di culture, in qual propizio accordo di circostanze sorgerà il nuovo Re di Roma? Natura ordinatus ad imperandum, dalla natura ordinato a imperare, ma dissimile ad ogni altro monarca, egli non verrà a riconfermare o a rialzare i valori che da troppo tempo i popoli - sotto l'influsso delle varie dottrine - soglion dare alle cose della vita; ma sì bene verrà ad abolirli o ad invertirli. Conoscendo tutte le significazioni dei casi che compongono la storia degli uomini e avendo penetrata l'essenza di tutte le volontà sovrane che determinarono i maggiori moti, egli sarà capace di construir compiutamente e di gittar verso l'avvenire quell'ideal ponte su cui alfine le stirpi privilegiate potranno valicar l'abisso che oggi sembra dividerle dal dominio ambito.» E questa imagine di re, tra tutte le imagini espresse dal suolo sacro ed entrate nella mia anima, mi era talvolta così visibile che quasi parevami una forma creata; e ardentemente io la contemplavo, mentre sul mio intelletto balenavano d'indescrivibile bellezza idee repentine e s'oscuravano per non risplendere forse mai più. Così la campagna di Roma col suo severo insegnamento mi confortava a conseguire la mia piena virilità, ad affermare la mia sovranità interiore, a disegnare con man ferma quella «linea circonferenziale di che si genera la bellezza umana» secondo il verbo di Leonardo. E io mi chiedeva, alla fine di ciascun giorno: «Di quali pensieri si è accresciuto il mio tesoro? Quali nuove energie si sono sviluppate dalla mia sostanza? Quali nuove possibilità ho intraveduto?» E volevo che ciascun giorno portasse l'impronta del mio stile, si distinguesse per un segno d'arte vigorosa, per un qualche fiero emblema di vittoria, porgendomi la familiarità di Tucidide l'esempio di que' suoi strateghi che costantemente fanno una bella e precisa concione, combattono poi con tutte le forze ed in ultimo elevano sul campo un trofeo. - Cui bono? - ripeteva intanto da lungi e da presso uno stuolo crepuscolare con voci non dissimili a quelle degli eunuchi. - Quale è il senso, quale è il pregio della vita? Perchè vivere? Perchè affaticarsi? Tutti gli sforzi sono inutili, tutto è vanità e dolore. Noi dobbiamo uccidere le nostre passioni l'una dopo l'altra e intendere ad estirpar dalle radici la speranza e il desiderio che sono la causa della vita. La rinuncia, la piena inconscienza, il dissolvimento di tutti i sogni, l'annientamento assoluto: - ecco la liberazione finale! Era una misera gente affetta di lebbra quella che iterava il lagno stucchevole. Gli antichi Persiani, come narra il freschissimo Erodoto, arrecavano a falli commessi contro il Sole la turpe infermità. E quella gente servile aveva, in fatti, offeso il Sole. Una parte di essa, sperando di mondarsi, si immergeva in grandi lavacri di pietà e vi si mollificava e distemperava con molta compunzione. Ma lo spettacolo non era men disgustoso. Volgevo gli occhi e tendevo gli orecchi altrove; e una superba allegrezza mi agitava allora i precordii, poiché i miei occhi non velati di lacrime vedevano tutte le linee e tutti i colori, poiché i miei orecchi sani e vigili udivano tutti i suoni e tutti i ritmi, poiché il mio spirito poteva senza limiti gioire delle apparenze fugaci e sapeva coltivare in sè ben altre melancolie e trovare il più amabile pregio della vita appunto nella rapidità delle sue metamorfosi e nella densità dei suoi misteri. «O molteplice Bellezza del Mondo» io pregava allora «non a te soltanto sale la mia lode; non a te soltanto, ma anche ai miei maggiori, ma anche a quelli che seppero gioire di te nei secoli remoti e mi trasmisero il loro fervido e ricco sangue. Lodati sieno ora e sempre per le belle ferite che apersero, per i belli incendii che suscitarono, per le belle tazze che votarono, per le belle vesti che vestirono, per i bei palafreni che blandirono, per le belle femmine che godettero, per tutte le loro stragi, le loro ebrezze, le loro magnificenze e le loro lussurie sieno lodati; perchè così mi formarono essi questi sensi in cui tu puoi vastamente e profondamente specchiarti, o Bellezza del Mondo, come in cinque vasti e profondi mari!» Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime nell'evocare imagini d'altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l'ansia dei decasillabi la caduta dei re, l'avvento delle repubbliche, l'accesso delle plebi al potere? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte fabbricante di lire? Noi potremmo, per modesta mercede, con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce....» Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poichè oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgano meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all'osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodajuoli. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell'assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell'Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l'epiteto medesimo ch'egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio ma non degne di levarsi per sancire una legge nell'assemblea. Difendete il Pensiero ch'essi minacciano, la Bellezza ch'essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l'antica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d'efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione!» E i patrizii, spogliati d'autorità in nome dell'uguaglianza, considerati come ombre d'un mondo scomparso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell'Ottantanove, aprire i portici dei nostri cortili all'aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei, esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?» Qualcuno tra loro - mal disposto alle rinunzie pacifiche, ai tedii eleganti e alle sterili ironie - rispondeva: «Disciplinate voi stessi come i vostri cavalli da corsa, aspettando l'evento. Apprendete il metodo per affermare e afforzare la vostra persona come avete appreso quello per vincere nell'ippòdromo. Costringete con la vostra volontà alla linea retta e allo scopo fermo tutte le vostre energie, e pur le vostre passioni più tumultuose e i vostri vizii più torbidi. Siate convinti che l'essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii e che la sovranità interiore è il principal segno dell'aristòcrate. Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. La disciplina è la superior virtù dell'uomo libero. Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell'antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla Terra generatrice, finchè uno, il più valido, non riuscisse ad imperar su gli altri. Aspettate dunque e preparate l'evento. Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell'uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d'una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza. Su l'uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all'obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà. Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce; ma ricordatevi sempre che l'anima della Folla è in balia del Pánico. Vi converrà dunque, all'occasione, provvedere fruste sibilanti, assumere un aspetto imperioso, ingegnar qualche allegro stratagemma. Il polítropo Ulisse, quando trascorreva il campo per ridurre tutti nel fòro, se imbattevasi in qualche plebeo vociferante lo castigava con lo scettro, taci, garrendo, taci, tu codardo, tu imbelle e nei consigli nullo. Il nobile demagogo Alcibiade, perito quant'altri mai nel governo della Gran Bestia, così dava principio a una sua concione per l'impresa di Sicilia: - A me, più che ad altri, si aspetta, o Ateniesi, il comando; e del comando io mi stimo degno. - Ma nessuno ammaestramento, in verità, è più profondo e più per voi opportuno di quello offertovi da Erodoto sul principio del libro di Melpomene. Eccolo. - Gli Sciti, rimasti ventott'anni lungi dalla patria per aver tenuto l'imperio dell'Asia superiore, dopo sì lungo intervallo volendo ad essa ritornare, incontrarono un non minor travaglio di quello che avevan durato nella guerra medica. Un grande esercito ostile lor precludeva l'accesso. E tanto avveniva perchè le donne scitiche, prive per lungo tempo dei loro uomini, ai servi s'erano abbandonate. E dai servi e dalle donne era sorta una generazione di giovani; i quali, consapevoli della propria origine, s'eran messi contro a coloro che tornavan dalla Media e primieramente, ad impedire il passo, avevano praticato uno scavo e dai monti taurici prolungatolo fino alla Palude Meotide, che molto è vasta. Seguitarono poi a respingere con valide opere di difesa il tentato assalto degli Sciti; e come questi ultimi dopo varii conflitti vedevano di non potere in alcun modo avanzar con le armi, un d'essi appunto così prese a dire: O Sciti, a che mai stiamo qui travagliando? Nel combattere coi nostri servi noi ci assottigliamo per le continue morti, e se noi li uccidiamo non facciam altro che scemare il numero dei nostri futuri soggetti. Onde io penso che ci convenga smettere e le aste e i dardi e che ognuno di noi debba imbrandir soltanto lo scudiscio del suo cavallo e in tal modo affrontar quella gente. Perchè sino ad ora avendoci veduto procedere in armi, essi al certo credettero di essere nostri eguali e figli di eguali; ma, come avranno veduto che in vece d'armi noi maneggiamo lo scudiscio, súbito sentiranno d'esser nostri servi; e, ben persuasi del loro stato, non sapranno più resisterci. Il qual discorso avendo udito gli Sciti, eseguirono il consiglio. E gli avversarii, fieramente percossi dal nuovo fatto, cessarono dal combattere e si diedero alla fuga. Questo pertanto è il modo onde gli Sciti riebbero la patria. - O dominatori senza dominio, meditatelo!» Forse nella mia solitudine laboriosa - se bene io non temessi nè l'infermità nè la demenza nè la morte possedendo questa tutelare fiamma di orgoglio di pensiero e di fede - forse talvolta la mia malinconia celava in sè un verace bisogno di comunioni con il fraterno spirito non incontrato ancóra o con un'adunanza di spiriti predisposti ad appassionarsi sinceramente di ciò che mi appassionava. Un tal bisogno parevami si rivelasse nel mio abito mentale di fermare le teorie delle idee e delle imagini in una concreta forma oratoria o lirica, quasi a riguardo d'un imaginario uditore. Caldi getti d'eloquenza e di poesia m'inondavano all'improvviso, cosicchè all'anima traboccante il silenzio talvolta era grave. Per confortare la mia solitudine, allora pensai di dare una figura corporea a quel demònico in cui, secondo il documento del mio primo maestro, io aveva fede come nell'infallibile segno che mi conduceva all'integrazione della mia effigie morale. Io pensai di commettere a una bocca bella e imperiosa e colorita dal mio medesimo sangue l'officio di ripetermi: - O tu, sii quale devi essere. Tra le imagini dei miei maggiori una m'è sopra tutte le altre carissima, e sacra come una icona votiva. È il più nobile e il più vivido fiore di mia stirpe, rappresentato dal pennello di un artefice divino. È il ritratto di Alessandro Cantelmo conte di Volturara, dipinto dal Vinci tra l'anno 1493 e il '94 a Milano dove Alessandro aveva preso stanza con una sua compagnia di gente d'arme, attratto dall'inaudita magnificenza di quello Sforza che voleva fare della città lombarda una nuova Atene. Nessuna cosa al mondo ha per me un egual pregio, e nessun tesoro mai fu custodito con più appassionata gelosia. Io non mi stanco di ringraziar la Fortuna che ha voluto far risplendere su la mia vita una tanto insigne imagine e concedermi la voluttà incomparabile di un tanto segreto. «Se tu possiedi una cosa bella, ricòrdati che ogni sguardo altrui usurpa il tuo possesso. Il godimento della contemplazione parteggiato è menomato: e tu rifiùtalo. Qualcuno, per non confondere il suo sguardo con quello dello sconosciuto, non entrò nel museo publico. Ora, se tu veramente possiedi una cosa bella, chiudila con sette porte e coprila con sette velarii.» E un velario copre la figura magnetica; ma il suo sogno è così profondo, la sua fiamma è così possente che talvolta il tessuto palpita alla veemenza del respiro. Io diedi dunque al demònico la forma di questo genio familiare; e lo sentii nella solitudine vivere d'una vita assai più intensa della mia. Non aveva io dinnanzi a me, per il prodigio durevole d'uno fra i più grandi rivelatori del mondo, non aveva io dinnanzi a me uno spirito eroico escito dal mio stesso ceppo e costituito da tutti quei caratteri distintivi della prosapia i quali io così acutamente cercava di rivelare in me medesimo e che in esso apparivano con una fierezza di rilievo quasi spaventosa? Eccolo ancóra dinnanzi a me, eguale sempre e pur sempre nuovo! Un tal corpo non è la carcere dell'anima ma ne è il simulacro fedele. Tutte le linee del volto quasi imberbe sono precise e ferme come in un bronzo cesellato con insistenza; la pelle ricopre d'un pallor fosco i muscoli asciutti, usi per certo a palesarsi con un tremito ferino nel desiderio e nella collera; il naso diritto e rigido, il mento ossuto e stretto, le labbra sinuose ma energicamente serrate esprimono la volontà temeraria; e lo sguardo è come una bella spada, all'ombra d'una capellatura densa e greve e quasi violetta come i grappoli d'uva che il sole affoca sul tralcio più vivace. Egli sta in piedi, visibile dal ginocchio in su, immoto; e pure l'imaginazione si rappresenta al primo attimo lo scatto repentino delle gambe flessibili e forti come gli acciari delle balestre, che scaglieranno pericolosamente quel busto elegante appena il nemico si mostri. «Cave adsvm»: ben gli si addice l'antica insegna. Vestito d'un'arme leggerissima, damaschinata certo da un artiere sommo, egli ha le mani ignude: mani pallide e sensitive ma pur con un non so che di tirannico e quasi di micidiale nel lor disegno netto: la sinistra appoggiata su la gòrgone dell'elsa, la destra contro lo spigolo d'un tavolo coperto di velluto cupo, del quale appare un lembo. Accanto alle manopole e al morioncello, posano sul velluto una statuetta di Pallade e una melagrana che porta sul gambo anche la sua foglia aguzza e il suo fiore ardente. Dietro il capo allontanasi per entro al vano d'una finestra una campagna spoglia terminata da una chiostra di colline su cui si eleva un còno, solo come un pensiero superbo. E in basso, su un cartiglio, leggesi questo distico: FRONS VIRIDIS RAMO ANTIQVO ET FLOS IGNEVS VNO In qual luogo e per quale evenienza Alessandro erasi incontrato la prima volta col maestro fiorentino che allora attingeva il massimo splendore della sua virilità? Forse in un festino di Ludovico, pieno delle meraviglie create dalle arti occulte del Mago? O piuttosto nel palazzo di Cecilia Gallerani, dove gli uomini militari ragionavano di scienza bellica, i musici cantavano, gli architetti e i pittori disegnavano, i filosofi disputavano delle cose naturali, i poeti recitavano i loro e gli altrui componimenti «alla presenza di questa eroina», come narra il Bandello. Quivi appunto mi piace imaginare il primo incontro, nel tempo in cui la favorita del Moro già incominciava ad amar segretamente Alessandro. Quale fiamma d'intelligenza audace e di volontà dominatrice doveva trasparire dalle sembianze del giovine perchè Leonardo ne fosse preso fin da quel giorno! Forse Alessandro ragionò con lui in disparte «su i modi di ruinare ogni rocca o altra fortezza se non fondata in sul sasso» e si appassionò ai segreti formidabili di quell'affascinante creator di madonne il qual superava in novità d'ingegni tutti i maestri e compositori di strumenti bellici. Forse, nel corso del ragionamento, Leonardo proferì qualcuna di quelle sue parole profonde su l'arte della vita; e, scrutando gli occhi del giovine fattosi muto, riconobbe in lui uno spirito deliberato a trarre dalla vita tutto ciò ch'ella poteva dargli, un ambizioso disposto non già a seguir ciecamente la sua ventura ma a conquistare il dominio con il soccorso di quella scienza che moltiplica e converge allo scopo le forze dell'operatore. E colui che alcuni anni dopo doveva divenire l'architetto militare di Cesare Borgia, colui che invocava ed aspettava un principe magnanimo il quale gli offerisse senza misura i mezzi per porre in atto i suoi innumerevoli disegni, colui vide forse nel patrizio chiomato il futuro fondatore di una dinastia regale e lo amò riponendo in lui le più superbe speranze. Mi piace imaginare che si riferisca alla sera del primo incontro il breve ricordo nei comentarii del Vinci (allora tutto intento agli studii per la statua equestre di Francesco Sforza): «A dì penultimo d'Aprile 1492. Ginnetto grosso di Messer Alessandro Cantelmo: ha bel collo e assai bella testa.» Uscendo insieme dal palazzo di Cecilia si soffermarono entrambi su la via sempre ragionando; e, come Leonardo scorse il ginnetto, gli si appressò per osservarlo. Palpando il bel collo egli espresse con qualche esclamazione spontanea il terribile travaglio che davano al suo spirito incontentabile le continue ricerche intorno al monumento con cui il Moro voleva glorificar la fortuna del padre conquistatore del ducato ed espugnatore di Genova. La sua mano creatrice delineò nell'aria il colosso con qualche largo gesto rendendolo visibile agli interni occhi del giovine. Cadeva il giorno; l'ora del vespero primaverile fluttuava su i pinnacoli della città gaudiosa; una compagnia di musici passava cantando; e il cavallo per l'impazienza nitrì. Un sentimento eroico dilatò allora l'anima di Alessandro agguagliandola al fantasma del gran capitano. «Ah, partire per la mia conquista!» egli pensava balzando in sella. E poichè in realtà egli non partiva se non verso una qualche cura della vita comune, disse d'improvviso in un impeto d'amarezza: «Pare a voi, maestro Leonardo, che metta conto di vivere a un uomo nel mio stato?» E Leonardo che quelle inattese parole non meravigliarono: «Tutto è che l'aquila pigli il primo volo.» E forse il cavaliere imberbe che si allontanava con la sua gente gli parve essere stato fatto re dalla natura «come quello che nell'alveare nasce condottiero delle api». Il mattino seguente un servo condusse il ginnetto in dono allo statuario insieme col saluto del suo signore. Tale imagino il principio delle mutue liberalità. Il maestro compensava il discepolo con la vera ricchezza, poichè «non si dimanda ricchezza quello che si può perdere». Come Socrate egli prediligeva i discepoli ornati di rare eleganze e di belle capellature. Come Socrate, egli eccelleva nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo vigore. Alessandro fu certo per qualche tempo l'eletto in quella Academia Leonardi Vincii dove una nobile genitura spirituale dischiudevasi a poco a poco sotto un insegnamento che traeva il suo calore dalla verità centrale come da un sole non oscurabile. «Nessuna cosa si può amare, nè odiare, se prima non si ha cognizion di quella. L'amore di qualunque cosa è figliuolo di essa cognizione. L'amore è tanto più fervente quanto la cognizione è più certa.» Si trovano qua e là negli interrotti comentarii di Leonardo i segni della curiosità appassionata con cui lo sperimentatore indefesso vigilava l'anima preziosa del suo giovine amico. Egli non aveva segreti per lui, volendo concorrere con tutti i suoi mezzi ad accrescerne le potenze accumulate, a renderne più efficace l'azione futura su un vasto campo. Egli notava per ricordarsene: «Parla col Volturara di questi tali modi di trarre i dardi.» E ancóra: «Mostra al Volturara modi di levare e ponere ponti, modi di ardere e disfare quelli dell'inimico e come si piantan bombarde e bastioni di dì e di notte.» Oppure: «Messer Alessandro mi vol dare il Valturio De re militari e le Deche e Lucrezio Delle cose naturali.» Come i detti brevi e fieri del giovine lo colpivano, egli ne notava alcuno. «Disse Messer Alessandro che convien prender la fortuna a man salva dinanti, perchè retro è calva.» E ancóra: «Sendo io in sul libro del dividere li fiumi in molti rami e farli guadabili, disse ardito il Volturara: Affè che Ciro di Cambise ben seppe fare il simile al fiume Ginde per castigarlo, sol per avere quello toltogli uno cavallo bianco.» Un giorno - imagino - erano entrambi convenuti nella casa magnifica di Cecilia Gallerani; e Leonardo aveva rapito gli animi sonando quella nova lira fabbricata di sua mano quasi tutta d'argento in forma d'un teschio di cavallo. Nella pausa che seguì l'entusiasmo, la rinata Saffo si fece recare un mirabile cofanetto ricco di smalti e di gemme inviatole dal duca in dono; e mostrandolo chiedeva ai presenti quale oggetto tanto prezioso potesse a lor giudizio meritare d'esservi riposto. Ciascuno espresse un diverso parere. - E voi, Messer Alessandro? - domandò Madonna Cecilia, con dolci occhi. Rispose l'audace: - Di quello che fra i tesori di Dario fu trovato, del quale nulla fu visto che fosse più ricco, uno antico Alessandro volle far la custodia alla Iliade di Omero. Sùbito il Vinci segnò nei comentarii quella risposta; e v'aggiunse: «Ei si vede chi si nutrica di midolle e nervi di lione.» Un altro giorno erano entrambi convenuti nel giardino della medesima ospite, e Alessandro, dopo aver disputato con qualcuno di quei «famosi spiriti», s'era tratto in disparte per seguire qualche pensiero nuovo che il calor della disputa aveagli dischiuso nell'intelletto denso di germi. Chiamandolo la bella contessa bergamina a più riprese, egli non si voltò se non tardi perchè tardi udì il richiamo. A un grazioso rimprovero, o forse a un motto pungente, rispose egli sorridendo: - Non si volta chi a stella è fisso. La sera, il Vinci segnò nei comentarii anche quella risposta; e v'aggiunse la sua profezia: «Presto piglierà il primo volo, empiendo l'universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture e gloria eterna al loco dove nacque.» Forse in quella sera medesima, considerando l'intensità e la molteplicità di quella precoce giovinezza, il suo spirito inclinato alle significazioni occulte degli emblemi e delle allegorie trovò il bel simbolo della melagrana compendiosa che reca sul gambo la foglia aguzza e il fiore ardente. Ma a dì 9 di luglio dell'anno 1495, tre giorni dopo la battaglia di Fornovo, egli segnava: «Morto il Volturara in campo, da par suo. Mai cieco ferro al mondo troncò più grande speranza.» Tal visse e morì il giovine eroe in cui parve sublimata la genuina virtù della mia stirpe militante. Tale intieramente mi si rivelava nella effigie vera che di lui tramandò al lontano erede un artefice soprannominato Promèteo. «O tu» egli mi diceva impadronendosi della mia anima col suo magnetico sguardo «sii quale devi essere.» «Per te sarò» io gli diceva «per te sarò qual debbo essere; poichè io ti amo, o bellissimo fiore di mio sangue; poichè io voglio riporre tutto il mio orgoglio nell'obbedire alla tua legge, o dominatore. Tu portavi in te una forza bastevole a soggiogare la terra, ma il tuo destino regale non doveva compiersi nel tempo in cui prima apparisti. Tu non fosti, in quel tempo, se non l'annunciatore e il precursore di te medesimo, dovendo riapparire su dal tuo ceppo longevo nella maturità dei secoli futuri, alla soglia di un mondo non anche esplorato dai guerrieri ma già promesso dai sapienti: riapparire come il messaggio l'interprete e il padrone d'una vita nuova. Per ciò scomparisti d'improvviso, a similitudine d'un semidio, presso un fiume gonfio di acque, tra il fragore della battaglia e dell'uragano, stando il sole per attingere il segno del Leone. La morte non troncò la grande speranza, sì bene la sorte volle differirne il compimento meraviglioso. La tua virtù, che non potè allora manifestarsi in una gesta trionfale al conspetto della terra, dovrà necessariamente risorgere un giorno nella tua stirpe superstite. E sia domani! Ed esca il tuo eguale dalla mia genitura! Io invoco ed attendo e preparo il rinascimento della tua virtù con una fede indefettibile, adorando la tua imagine vera, o dominatore pensoso, o tu che mettesti per segno nei libri della Sapienza il filo della tua bella spada ignuda!» Così io gli diceva. E sotto il suo sguardo e sotto la sua ammonizione, non soltanto mi si moltiplicavano le forze efficaci ma il mio cómpito mi si determinava in linee definitive. - Tu, dunque, lavorerai ad effettuare il tuo fato e quello della tua stirpe. Tu avrai dinnanzi, nel tempo medesimo, il disegno premeditato della tua esistenza e la visione di un'esistenza superiore alla tua. Tu vivrai nell'idea che ciascuna vita, essendo la somma delle vite precedenti, è la condizione delle future. Tu non crederai dunque di essere soltanto principio, motivo e fine del tuo proprio fato, ma sentirai tutto il pregio e tutto il peso dell'eredità che hai ricevuta dai tuoi maggiori e che dovrai trasmettere al tuo discendente contrassegnata dalla tua più gagliarda impronta. La concezione sovrana della tua dignità sorga su la certezza, in te ferma, d'essere il tramite conservatore d'una energia molteplice che potrà domani o tra un secolo o nel tempo indefinito affermarsi con una manifestazione sublime. Ma tu spera che sia domani! Triplice è il tuo cómpito, dunque, poichè tu hai il dono della poesia e ti studii d'acquistare la scienza delle parole. Triplice è il tuo cómpito: - condurre con diritto metodo il tuo essere alla perfetta integrità del tipo latino; adunare la più pura essenza del tuo spirito e riprodurre la più profonda visione del tuo universo in una sola e suprema opera d'arte; preservare le ricchezze ideali della tua stirpe e le tue proprie conquiste in un figliuolo che, sotto l'insegnamento paterno, le riconosca e le coordini in sè per sentirsi degno d'aspirare all'attuazione di possibilità sempre più elevate. Allora, avendo così lucida dinnanzi a me la tavola delle mie leggi, io conobbi non soltanto la tristezza del dubbio ma un'ansietà che somigliava alla paura, un'ansietà nova e orribile. «Se una violenza cieca e impreveduta delle forze esteriori urtasse difformasse infrangesse la mia opera! Se io dovessi piegarmi e soggiacere a un sopruso bestiale del Caso! Se il mio edificio crollasse, prima della coronazione, per uno di quei soffii deleterii che all'improvviso irrompono dal buio!» Questa paura io conobbi, in una strana ora di smarrimento e di abbattimento sentendo vacillare la mia fede. Ma poco dopo n'ebbi vergogna, quando l'ammonitore mi disse: «A giudicarne dalla qualità dei tuoi pensieri, tu sembri contaminato dalla folla o preso da una femmina. Per avere attraversato la folla che ti guardava, ecco, tu già ti senti diminuito dinnanzi a te medesimo. Non vedi tu gli uomini che la frequentano divenire infecondi come i muli? Lo sguardo della folla è peggio che un getto di fango; il suo alito è pestifero. Vattene lontano, mentre la cloaca si scarica. Vattene lontano, a maturare tutto quel che hai raccolto. Verrà poi la tua ora. Di che temi? Che varrebbe tanta disciplina se non ti rendesse più forte delle cose? Tu non dovrai invocare dalla fortuna se non l'occasione; ma pur questa è possibile talvolta, con la volontà, crearla. Vattene lontano, dunque, mentre la cloaca si scarica. Non t'indugiare; non ti lasciar contaminare dalla folla, nè ti lasciar prendere da una femmina. Certo, tu hai bisogno di un'alleanza per fornire una parte del cómpito che hai assegnato a te stesso. Ma meglio è per te attendere e rimaner solo, pur anche uccidere la tua speranza è meglio che sottomettere la tua carne e la tua anima a un vincolo indegno. - Se la cosa amata è vile, l'amante si fa vile. - Bisogna che tu non dimentichi mai questa sentenza del tuo Leonardo, e che tu possa sempre rispondere superbamente come Castruccio: - Io ho preso lei non ella me». Giusta scendeva l'ammonizione, in quell'ora. E senza indugio io mi disposi a partire dalla città infetta. Era il tempo in cui più torbida ferveva l'operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follìa del lucro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i famigliari della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei majorascati papali, che avevano, fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei secoli. Le magnifiche stirpi - fondate, rinnovellate, rafforzate col nepotismo e con le guerre di parte - si abbassavano a una a una, sdrucciolavano nella nuova melma, vi s'affondavano, scomparivano. Le ricchezze illustri, accumulate da secoli di felice rapina e di fasto mecenatico, erano esposte ai rischi della Borsa. I lauri e i roseti della Villa Sciarra, per così lungo ordine di notti lodati dagli usignuoli, cadevano recisi o rimanevano umiliati fra i cancelli dei piccoli giardini contigui alle villette dei droghieri. I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell'Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati (mi stanno sempre nella memoria come i miei occhi li videro in un pomeriggio di novembre) atterrati e allineati l'uno accanto all'altro, con tutte le radici scoperte che fumigavano verso il cielo impallidito, con tutte le negre radici scoperte che parevano tenére ancor prigione entro l'enorme intrico il fantasma di una vita oltrapossente. E d'intorno, su i prati signorili dove nella primavera anteriore le violette erano apparse per l'ultima volta più numerose dei fili d'erba, biancheggiavano pozze di calce, rosseggiavano cumuli di mattoni, stridevano ruote di carri carichi di pietre, si alternavano le chiamate dei mastri e i gridi rauchi dei carrettieri, cresceva rapidamente l'opera brutale che doveva occupare i luoghi già per tanta età sacri alla Bellezza e al Sogno. Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia. Perfino su i bussi della Villa Albani, che eran parsi immortali come le cariatidi e le erme, pendeva la minaccia dei barbari. Il contagio si propagava da per tutto, rapidamente. Nel contrasto incessante degli affari, nella furia feroce degli appetiti e delle passioni, nell'esercizio disordinato ed esclusivo delle attività utili, ogni senso di decoro era smarrito, ogni rispetto del Passato era deposto. La lotta per il guadagno era combattuta con un accanimento implacabile, senza alcun freno. Il piccone, la cazzuola e la mala fede erano le armi. E, da una settimana all'altra, con una rapidità quasi chimerica, sorgevano su le fondamenta riempite di macerie le gabbie enormi e vacue, crivellate di buchi rettangolari, sormontate da cornicioni posticci, incrostate di stucchi obbrobriosi. Una specie d'immenso tumore biancastro sporgeva dal fianco della vecchia Urbe e ne assorbiva la vita. Poi di giorno in giorno, su i tramonti - quando le torme rissose degli operai si sparpagliavano per le osterie della via Salaria e della via Nomentana - giù per i viali principeschi della Villa Borghese si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui nè il parrucchiere nè il sarto nè il calzolaio avevan potuto togliere l'impronta ignobile; si vedevano passare e ripassare al trotto sonoro dei bai e dei morelli, riconoscibili alla goffaggine insolente delle loro pose, all'impaccio delle loro mani rapaci e nascoste in guanti troppo larghi o troppo stretti. E parevano dire: «Noi siamo i nuovi padroni di Roma. Inchinatevi!» Tali, in fatti, i padroni di quella Roma che sognatori e profeti, ebri dell'ardente esalazione di tanto latino sangue sparso, avevano assomigliata all'arco di Ulisse. - Bisogna curvarlo o morire. - Ma quegli stessi uomini, i quali da lungi erano apparsi fiamme nel cielo eroico della patria non ancor libera, ora diventavano «carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i muri una turpe figura o una parola sconcia», secondo l'atroce imagine d'un rètore indignato. S'industriavano anch'essi a vendere, a barattare, a legiferare e a tender trappole, nessuno più facendo allusione all'arco micidiale. E non pareva probabile, in verità, che a spaventarli si levasse d'improvviso il grido: «O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca!» Ottimo consiglio era dunque il ritrarsi dallo spettacolo, per qualche tempo. E io partii con i miei cavalli e con le mie cose più familiari, senza commiati. Avevo scelto per soggiorno Rebursa, la prediletta delle mie terre ereditarie, prediletta già da mio padre come da me: rifugio favorevole a un'anima valida, paese dalle vertebre di roccia, disegnato con rara sobrietà e gagliardìa di stile: che poteva accogliere e nutrire il sogno imperioso della mia ambizione come aveva accolto e nutrito l'altera tristezza di mio padre dopo la caduta del suo Re e dopo la morte di Colei che vivente era parsa la luce della nostra casa, il nostro più sicuro bene. Anche, io aveva poco lungi di là - a Trigento - alcuni amici, non veduti da molti anni ma non obliati, a cui mi legavano grati ricordi della puerizia e dell'adolescenza. E il pensiero di rivederli mi rallegrava. Vivevano a Trigento, nell'antico palazzo baronale circondato da un giardino quasi vasto come un parco, i Capece Montaga: famiglia tra le più illustri e magnifiche delle Due Sicilie, caduta in rovina nei dieci anni che seguirono la disgrazia del Re, quindi ritiratasi a vita oscura nell'ultimo dei suoi feudi, in fondo alla provincia silenziosa. Il vecchio principe di Castromitrano - che aveva goduto i supremi onori alla corte di Ferdinando e di Francesco, e che aveva seguito fedelmente l'esule a Roma e oltralpe senza mai rinunziare alle suntuosità del tempo felice - sognava da anni nell'ombra e da anni invano aspettava la Restaurazione, mentre la sua canizie precoce andavasi chinando sempre più verso il sepolcro e la sua figliuolanza andavasi disfacendo nel tedio inerte. Soltanto la demenza della principessa Aldoina turbava la lunga agonia gittandovi sopra a sprazzi lo splendore fantastico del Passato. E nulla poteva eguagliare in desolazione il contrasto tra la realtà miserevole e i pomposi fantasmi espressi dal cervello della demente. Quella grande stirpe moribonda aggiungeva a quel paese di rocce una specie di funebre bellezza, per la mia anima che cercava già di raccogliere tutta l'anima inclusa nella chiostra lapidea. Mi nasceva già dal profondo un presentimento misterioso in cui il mio destino si avvicinava e si mescolava a quel destino solitario. E nella memoria mi risonavano con una tenue magia musicale i nomi delle principesse nubili: Massimilla, Anatolia, Violante: nomi in cui parevami fosse qualche cosa di vagamente visibile come un ritratto pallido a traverso un vetro offuscato; nomi espressivi come volti pieni di ombre e di lumi, in cui già parevami scoprire un infinito di grazia, di passione e di dolore. II.Grandissima grazia d'ombre e
di lumi s'aggiunge ai visi di quelli che seggono sulle porte di quelle abitazioni che sono oscure.... Leonardo da Vinci.
- Rimarrai con noi! - esclamò Antonello, come fuori di sè, stringendomi le mani. - Tu sei mandato da Dio, dunque.... - Bisogna che tu venga oggi stesso a Trigento, - disse Oddo interrompendo il fratello. - Tutti ti aspettano là. Bisogna che tu venga oggi stesso.... Mi sembravano entrambi tenuti da un'agitazione strana, quasi febrile; avevano i gesti disordinati e un po' convulsi, la parola rapida e quasi ansiosa: l'aspetto di due prigionieri infermicci, esciti allora allora dal carcere come da un sogno opprimente, turbati e smarriti e quasi ebri nel primo contatto con la vita estranea. Come più io li guardava, più manifesti mi apparivano nelle loro persone i segni singolari; e cominciavano a darmi pena e inquietudine. - Non so, - risposi, - non so se oggi stesso potrò venire. Tante ore di viaggio mi hanno stancato. Ma domani... Provavo un bisogno vago di star solo, di raccogliermi, di assaporare quella malinconia ch'era caduta su me all'improvviso. I miei occhi cercavano il paese intorno per riconoscerlo. Veniva dalle cose verso di me quasi un'onda di memorie, che la presenza di quei due esseri dolorosi m'impediva di ricevere. - Allora - disse Oddo - verrai domattina a colazione da noi. Consenti? - Sì, verrò. - Tu non puoi imaginare come ti aspettino tutti, laggiù. - Non mi avevate dunque dimenticato. - Oh no! Tu ci avevi dimenticati. - Tu ci avevi dimenticati - ripetè Antonello, con un sorriso un po' convulso. - È giusto. Noi siamo sepolti. Gli accenti della sua voce mi colpivano più che le sue parole. Un'intensità singolare avevano i suoi accenti, i suoi gesti, i suoi sguardi, tutti i suoi atti, come quelli di un uomo posseduto da un morbo misterioso, tormentato da un'allucinazione continua, vivente in mezzo ad apparenze non percettibili dai sensi altrui. Non mi sfuggiva una specie di sforzo ch'egli faceva come per uscire da un'atmosfera che l'involgesse e per comunicar più da vicino con me. Un tale sforzo dava qualche cosa di contratto e di convulso a tutta la sua persona. La mia pena e la mia inquietudine crescevano. - Tu vedrai la nostra casa - egli soggiunse, con quel medesimo sorriso. Senza volere, domandai: - Come sta Donna Aldoina? Ambedue i fratelli chinarono il capo, non risposero. Si somigliavano. Erano, in fatti, gemelli: ambedue lunghi, magri, un po' curvi. Avevano gli stessi occhi chiari, la stessa barba rada e fine, le stesse mani pallide nervose e inquiete come quelle delle isteriche. Ma in Antonello i segni della debolezza e del disordine si mostravano più profondi e irreparabili. Egli era perduto. Nella pausa, invano io cercavo parole. Mi teneva una specie di stupore triste, quasi che su l'anima avessi tutto il peso del corpo stanco. Poichè la strada costeggiava una catena di rocce, il trotto dei cavalli risonando sul terreno duro svegliava gli echi nelle cavità deserte. Alla svolta, apparve nella valle il fiume rilucente per sinuosità innumerevoli. Chiusa nei meandri come un'isola, apparve una massa biancastra di rovine. - Non è Linturno, là? - chiesi io riconoscendo la città morta. - È Linturno - rispose Oddo. - Ti ricordi? Una volta ci andammo insieme.... - Mi ricordo. - Quanto tempo è passato! - Quanto tempo! - Ora non c'è molta differenza tra Linturno e Trigento - disse Antonello, toccandosi incertamente la barba su la guancia con le dita affilate, mentre i suoi occhi parevano perdere lo sguardo esteriore. - Domani vedrai. - Ma tu lo scoraggi! - interruppe Oddo, con una leggera irritazione. - Domani non verrà. - Verrò, verrò - assicurai, sforzandomi di sorridere e di vincere la mia tristezza medesima che più si chiudeva. - Verrò; e troverò bene il modo di rianimarvi. Mi sembrate un po' malati di solitudine, un po' depressi.... Antonello, ch'era seduto di fronte a me, pose una mano sul mio ginocchio chinandosi fino a guardarmi nelle pupille, mentre il suo volto prendeva un'indefinibile espressione di sgomento e di ansietà, come s'egli avesse trovato nelle mie parole un senso spaventoso e volesse interrogarmi. E di nuovo quel suo volto bianco, che mi si avvicinava, pur nella luce diurna mi parve escire da un mondo in cui respirasse solo; mi suscitò l'imagine di quei volti emaciati e spiritali che escono soli dai fondi misteriosi dei quadri sacri anneriti dal tempo e dal fumo dei cèrei. Non fu se non un attimo. Egli si ritrasse e non parlò. - Ho portato meco i cavalli - io soggiunsi, dominando il mio turbamento. - Faremo grandi cavalcate, ogni giorno. Bisogna muoversi, scuotere la pigrizia e la noia. Come passate voi le ore? - Contandole - disse Oddo. - E le sorelle? - Oh quelle povere creature! - mormorò Oddo con un tremito di tenerezza nella voce. - Massimilla prega; Violante si uccide coi profumi che le manda la Regina; Anatolia.... Anatolia è quella che ci fa vivere, è la nostra anima, è per noi tutto. - E il principe? - È molto invecchiato; è diventato interamente bianco. - E Don Ottavio? - Non esce quasi mai dalle sue stanze. Abbiamo quasi dimenticato il suono della sua voce. - E Donna Aldoina? - stavo per chiedere di nuovo, ma mi trattenni; e tacqui. Eravamo nella valle ondulata del Saurgo, in una conca di tepore. - Com'è precoce qui la primavera! - esclamai, per un bisogno di consolare quei due dolenti e di consolar me medesimo. - In febbraio vedete i primi fiori. Non è già questo un privilegio? Voi non sapete godere delle cose che la vita vi offre. Mutate un giardino in una carcere per torturarvi. - Dove sono i fiori? - domandò, con quel suo sorriso penoso, Antonello. Cercammo tutt'e tre i fiori con gli occhi, per quella terra fulva e aspra come la giubba del leone, che sembrava fatta per nutrire le piante dall'aspetto arido e tormentato ma datrici d'un opulento frutto. - Eccoli! - gridai con un moto vivo di piacere additando un filare di mandorli su un'eminenza che aveva la forma lunga e nobile di un'onda. - Sono nella tua terra - disse Oddo. Eravamo in fatti nelle vicinanze di Rebursa. La catena rocciosa con le sue cime frastagliate e aguzze piegava a destra, lambita dal Saurgo serpentino, sollevandosi a grado a grado verso il massimo culmine del monte Corace che scintillava al sole come un elmetto. A sinistra della strada il suolo svolgevasi ondulato ad imagine di una spiaggia coperta di larghe dune, trasformandosi poco lungi in una successione di colline fulve e gibbose come i cammelli del deserto. - Guarda, guarda! Un altro filare laggiù! - gridai scorgendo un'altra nube argentea e leggera di fiori. - Non vedi, Antonello? Egli non tanto guardava i mandorli quanto me, con un sorriso trepido e attonito, meravigliandosi forse della puerile allegrezza che suscitava a un tratto in me la vista dei primi fiori. - Ma qual più lieta accoglienza avrebbe potuto farmi la terra amata da mio padre? Qual più gentile spettacolo di festa avrebbe potuto offrirmi quel robusto paese dalle vertebre di roccia? - Se fossero qui Anatolia, Violante, Massimilla! - esclamò Oddo, a cui s'era comunicata la mia animazione impreveduta. - Ah se fossero qui! E la sua voce esprimeva il rammarico. - Bisogna condurle sotto i fiori - disse Antonello dolcemente. - Guarda quanti! - io seguitai, abbandonandomi al novissimo piacere con più confidenza perchè sentivo già di poterne trasfondere almeno una parte in quelle povere anime chiuse. - Sono felice che sieno miei, Oddo. - Bisogna condurle sotto i fiori - ripetè Antonello dolcemente, come trasognato. Mi pareva che i suoi occhi febrili si rinfrescassero nella visione di quelle cose pure e che le sue parole piane mescolassero a quelle cose le imagini indistinte delle tre sorelle: «Massimilla prega; Violante si uccide coi profumi; Anatolia è quella che ci fa vivere, è l'anima nostra.» - Ferma! - ordinai al cocchiere, sollevandomi a un tratto, colpito da un pensiero subitaneo che mi fece gioire singolarmente. - Scendiamo; entriamo nel campo. Voglio che portiate a casa un fascio di rami. Sarà una festa, laggiù. Oddo e Antonello si guardarono un po' confusi, un po' sorridenti, quasi timidi, come dinnanzi a un fatto impensato e straordinario che nel tempo medesimo li sbigottisse e li empisse d'una sensazione deliziosa. Essi mi avevano mostrato il loro male, mi avevano rivelata la loro pena, mi avevano parlato del triste carcere ond'erano esciti e dov'erano per rientrare; ed ecco, su la via aperta, io li invitavo a riconoscere e a festeggiare la primavera: la primavera ch'essi avevano dimenticata, ch'essi parevano rivedere per la prima volta dopo lunghi anni e considerare con un misto di temenza e di allegrezza, come un miracolo. - Scendiamo! Non più io mi sentivo stanco, ma sentivo in me la consueta abondanza di vita e quella elevazione che dánno allo spirito gli atti spontanei di generosità. Io era liberale di me a quei due indigenti, li riscaldavo con la mia fiamma, li abbeveravo col mio vino. Leggevo già nei loro occhi (ed essi mi guardavano quasi di continuo) una specie di sommessione e di dedizione fiduciosa. Essi già mi appartenevano entrambi; ed io poteva esercitare su loro il beneficio e il predominio senza fallire. - Che aspetti? Non discendi? - chiesi ad Antonello che, col piede sul predellino, pareva esitare come davanti a un pericolo. Egli aveva ancora quel suo sorriso contratto. Fece uno sforzo visibile nel mettere il piede a terra; vacillò come se nel calcolare l'altezza si fosse ingannato; e i suoi primi passi furono saltellanti e mal fermi. Lo aiutai nel varcare la callaia. Sentendo cedere le zolle, egli si soffermò; e, rivolto agli alberi fioriti, respirò forte, accolse tutta la bella apparenza ne' suoi occhi chiari, ne rimase quasi abbacinato. Io gli dissi, toccandogli il braccio: - Tu non ti ricordavi di queste cose. Oddo, ch'era già entrato nel frutteto, esclamò come ebro: - Ah se Violante fosse qui! Quest'odore val bene le essenze di Maria Sofia. Antonello ripetè dolcemente: - Bisogna condurle sotto i fiori. Pareva che il suono di queste parole gli avesse affascinato l'orecchio come una cadenza, fin dalla prima volta. La sua voce nel ripeterle aveva le stesse inflessioni. E io nel riudirle provai non so che turbamento, quasi che mi fossero dirette. Il desiderio di tagliare i rami, ch'era caduto dinnanzi a tanta bellezza vivente, mi risorse; e imaginai in confuso l'arrivo del gran dono primaverile al palazzo lùgubre nel crepuscolo. - Non c'è nessuno nelle vicinanze? - domandai, impaziente. Un colono sopraggiungeva di corsa. Ansando si curvò e si mise a baciarmi le mani con una specie di furia. - Taglia i più bei rami - io gli dissi. Era egli un magnifico esemplare della sua specie, degno abitatore di quella roggia terra sparsa di pietre focaie. Mi pareva in vero un superstite dell'antica razza lapidea di Deucalione. Brandì la róncola, e con colpi netti e rapidi si diede a mutilare le felici creature vegetali. Ad ogni colpo cadevano i petali meno tenaci e imbiancavano il suolo. - Guarda! - dissi ad Antonello accostandogli un ramo. - Hai tu mai conosciuta una cosa più delicata e più fresca di questa? Egli levò la debole mano feminina e toccò con la punta delle dita una corolla. Il suo gesto era quello dell'infermo o del convalescente che tocca una cosa viva con la vaga illusione che essa gli lasci nel contatto qualche piccola parte di vitalità come le farfalle lasciano la polvere labile delle loro ali. Egli si volse al fratello con una malinconia quasi tenera nel suo sorriso penoso: - Vedi, Oddo? Noi avevamo dimenticato, non sapevamo più.... - Ma non vivete voi in un giardino? - io domandai meravigliandomi di quel loro stupore e di quella loro commozione innanzi a un semplice ramo di mandorlo come innanzi a una novità inopinata. - Non passate tutti i giorni tra le foglie e i fiori? - Sì, è vero - rispose Antonello. - Ma io non li vedevo più. E poi questi sono o mi sembrano, io non so, un'altra cosa. Non so dirti l'impressione che mi fanno. Tu non puoi comprendere. Poichè la ròncola risonava ancora, egli si volse verso il mandorlo che gemeva sotto i colpi. L'uomo, sollevato da terra, stringeva il tronco nella tenaglia delle gambe nerborute, avendo sul capo fosco come quel d'un mulatto la fresca nuvola argentina che tremava al luccichìo del ferro adunco. - Digli che cessi! - mi pregò Antonello. - Noi non potremo caricarci di tanti rami. - Vi farò portare dalla carrozza fino a Trigento, col carico. M'indugiavo tuttora a imaginare l'arrivo del dono primaverile innanzi ai cancelli del parco ove le tre sorelle attendevano. Le loro figure mi balenavano indistinte, pur con qualche lineamento che mi pareva di rinvenire nei ricordi della puerizia e dell'adolescenza. E il desiderio di rivederle, di riudire la loro voce, di ravvivare quei ricordi alla loro presenza, di conoscere il loro male, di mescolarmi alla loro vita ignota mi cresceva a poco a poco e cominciava a prendere l'acutezza di un'inquietudine. Seguendo il mio pensiero e il mio sentimento (già la carrozza correva verso Rebursa), io dissi: - Un tempo, il parco di Trigento era pieno di giunchiglie e di violette. - Anche ora - disse Oddo. - C'erano grandi siepi di bosso. - Ci sono ancóra. - Mi ricordo bene dell'anno che arrivaste da Monaco per rimanere. Massimilla era molto malata. Accompagnavo a Trigento quasi ogni giorno mia madre.... Noi eravamo immersi nella primavera. I rami di mandorlo ingombravano la carrozza: ne avevamo dietro le spalle, ne avevamo su le ginocchia. Il viso così bianco di Antonello m'appariva tra quella bianchezza odorosa più consunto; e la malinconia dei suoi occhi febrili, troppo in contrasto con quella vivente espressione di una gioventù sempre rinnovellata, mi si adunava intorno al cuore. - Peccato che tu non venga oggi a Trigento! - disse Oddo, con un profondo rammarico nella voce. - Mi dispiace di lasciarti. - È vero - aggiunse Antonello. - Ti abbiamo riveduto soltanto oggi, dopo anni, dopo anni di silenzio e di dimenticanza; e ora già ci sembra di non poter fare a meno di te. Essi proferivano le parole affettuose con quella semplicità e con quel candore che conservano gli uomini solitarii, non abituati alle simulazioni della vita comune. Sentivo già ch'essi mi amavano e che io li amavo, e che tra noi la grande lacuna degli anni si colmava a un tratto, e che la loro sorte stava per congiungersi alla mia sorte indissolubilmente. - Perchè la mia anima s'inclinava con tanta pena verso quei due vinti, si protendeva con tanto desiderio verso grazie e tristezze intravedute, mostrava tanta impazienza di versare la sua dovizia su quella povertà? Era dunque vero che la lunga e dura disciplina non aveva inaridite in lei le fonti spontanee della commozione e del sogno ma le aveva rese più profonde e più fervide. - Un vapore di poesia si diffondeva per me in quel pomeriggio di febbraio intiepidito dall'alito d'una primavera precoce. Il corso volubile del Saurgo a piè delle rocce plasmate dal fuoco; la città morta nel fiume impaludato; il vertice del Corace sfavillante come un elmetto su una fronte minaccevole; le fulve glebe seminate di selci risvegliatrici delle scintille dormenti; le viti e gli olivi contorti dall'atroce sforzo d'esprimere frutti così ricchi da membra così magre: tutti gli aspetti del paese intorno significavano la potenza dei pensieri nutriti in segreto, il mistero tragico dei destini compiuti, l'energia dolorosa, la constrizione tirannica, la passione superba, ogni più aspra e più rigida virtù della terra solitaria e dell'uomo solo. Pur nondimeno il più mite dei tepori primaverili si raccoglieva nell'austera chiostra; le fioriture argentee dei mandorli coronavano i poggi come le schiume coronano le onde; ai raggi obliqui i declivii qua e là prendevano l'apparenza morbida di un velluto disteso; i culmini delle rocce si convertivano in un oro quasi roseo, sul cielo che delicatamente inverdiva. L'influsso della stagione e la magia dell'ora potevano dunque addolcire il duro genio dei luoghi, velare di grazie quella fierezza, temperare quella violenza, versare un lene incantesimo in quel bacino foggiato con arte ignea dalla volontà terribile di un antico vulcano e poi con vece assidua corroso dalla cupidigia o arricchito dalla liberalità di un antico fiume. - Noi ci vedremo assai spesso - io dissi, dopo una pausa rispondendo alle parole buone. - Da Rebursa a Trigento la via è breve. E io so che in voi ho ritrovato due miei fratelli.... Entrambi trasalirono, poichè un guardiano a cavallo oltrepassò di galoppo scaricando in alto la sua carabina per dare il segnale alle salve di saluto e di gioia. Rebursa si levava innanzi a me con le sue quattro torri di pietra, ancor bella e forte, mostrando ancora intatta l'impronta dell'orgoglio originario, distendendo la sua ombra e la sua dominazione su una gente gagliarda in cui l'obedienza e la fedeltà si trasmettevano di padre in figlio come caratteri della sostanza vitale. Ma mi strinse l'anima un'angoscia non provata da lungo tempo quando posi il piede su la soglia cosparsa di mirto e d'alloro, dove nessuna voce cara mi dava il benvenuto chiamandomi per nome. Le imagini dei miei morti mi comparvero a piè della scala e mi fissarono con gli occhi trascolorati, senza un gesto, senza un cenno e senza un sorriso. Più tardi, seguii con lo sguardo a lungo a lungo su la via di Trigento la carrozza che portava i due tristi malati quasi sepolti sotto i fiori. E la mia anima precorse al cancello del parco dove le tre sorelle attendevano - Anatolia, Violante, Massimilla! -; e le intravide nell'atto di ricevere su le braccia protese il fresco dono della primavera; e cercò di riconoscere i nobili volti a traverso la siepe fragrante, cercò di scoprire la fronte di colei ch'ella avrebbe eletta per l'alleanza necessaria. Il crepuscolo cadendo aumentava quella strana e impreveduta agitazione del desiderio d'amore. Un'ombra azzurra occupava la valle del Saurgo, celava la città morta, ascendeva lentamente su per le aspre gradinate rocciose; ma come in cielo pullulavano gli astri così in terra s'accendevano fuochi di festa, divampavano, si moltiplicavano, formavano larghe corone. Soli, altissimi, estranei a quei segni della vita infera, quasi retrocessi nella lontananza d'un mito, quasi culminanti in un'atmosfera supraterrestre, i pinnacoli delle rocce risplendevano ancóra. E a un tratto fiammeggiarono come piropi, d'un lume incredibile che durò pochi attimi; impallidirono, si fecero violacei, si confusero, si spensero. Ultima l'eccelsa punta del Corace restò di fiamma; acutissima ferì il cielo, simile al grido della passione senza speranza; poi, con la rapidità d'un baleno anch'essa si spense; entrò nella notte comune. «Se il rigore della tua lunga constrizione non avesse altro compenso che l'ineffabile turbamento a cui t'abbandoni da ieri, già dovresti teco medesimo rallegrarti di tanti sforzi compiuti» mi diceva il demònico, la mattina seguente, cavalcando noi al passo verso il giardino chiuso. «Eccoti alfine maturo! Prima di ieri tu non sapevi che la tua anima fosse giunta a tanta maturità e a tanta pienezza. La felice rivelazione ti viene dal bisogno che provi, subitaneo, di versare la tua dovizia, di spanderla, di prodigarla senza misura. Tu ti senti inesauribile, capace di alimentare mille esistenze. È ben questo il premio dei tuoi assidui sforzi: - ora tu possiedi l'impetuosa fecondità delle terre profondamente lavorate. Goditi dunque la tua primavera; rimani aperto a tutti i soffii; lasciati penetrare da tutti i germi; accogli l'ignoto e l'impreveduto e quanto altro ti recherà l'evento; abolisci ogni divieto. Omai il tuo primo cómpito è fornito. La tua natura, che tu hai resa integra e intensa, ti sia sacra. Rispetta i minimi moti del tuo pensiero e del tuo sentimento perchè ella sola li produce. Già che ella ti appartiene tutta quanta, ora tu puoi abbandonarti a lei e gioirne senza limiti. Tutto, ora, ti è permesso: pur quello che odiasti o disprezzasti in altrui: perocché tutto divenga nobile passando a traverso la sincerità della fiamma. Non temere d'esser pietoso, tu che sei forte e che sai imporre il tuo dominio e il tuo castigo. Non avere onta delle tue inquietudini e dei tuoi languori, tu che ti sei fatta una volontà di tempra dura come le spade battute a freddo. Non respingere la dolcezza che t'invade, l'illusione che ti avvolge, la malinconia che ti attira, tutte le cose nuove e indefinibili che oggi tentano la tua anima attonita. Esse non sono se non le vaghe forme del vapore che si sviluppa dalla vita fermentante nelle profondità della tua natura ferace. Accoglile dunque senza sospetto, poichè non ti sono estranee nè ti diminuiscono nè ti corrompono. Ti appariranno forse domani come le prime annunziatrici velate di una natività che è nei tuoi voti.» Io non ho mai ritrovato di poi un'ora tanto deliziosa e tanto penosa a un tempo. Non so se gli alberi carichi di fiori avessero della lor vitale potenza un senso così pieno come io aveva della mia in quel mattino limpido; ma certo ad essi mancava quella vasta e confusa ansietà in cui s'agitavano innumerevoli affetti e innumerevoli pensieri. Per prolungare la pena e la delizia io tenevo il mio cavallo al passo indugiandomi nella via, quasi che quell'ora dovesse chiudere per sempre una fase della mia intima vita e al mio giungere sul luogo destinato una fase nuova e imprevedibile dovesse aprirsi; di cui era già il presentimento oscuro in fondo alla mia ansietà che non si placava. Ad intervalli il soffio della primavera investendomi d'improvviso col suo susurro e col suo tepore pareva rapirmi in un etere di sogno, abolire in me per qualche attimo la coscienza della persona reale e infondermi l'anima vergine e ardente d'uno di quelli amanti eroi che nelle favole cavalcano verso le Belle addormentate nei boschi. Non cavalcavo anch'io verso le principesse nubili, prigioniere nel giardino chiuso? E non forse ciascuna di loro nel suo cuore segreto aspettava lo Sposo? Già m'apparivano quali le fingeva il mio desiderio e già l'imagine triplice suscitava dal mio desiderio la prima perplessità. Io mi chiedeva: «Chi sarà l'eletta?», comprendendo in me, nel tempo medesimo, l'allegrezza nuziale dell'una e la sepolcrale tristezza delle altre, sentendo già in me tutti i germi delle inquietudini future, intravedendo già sotto la speranza il rammarico. E di nuovo mi attraversò lo spirito quel timore che una volta mi aveva turbato nel mezzo della mia opera volontaria: il timore delle forze cieche e fatali contro cui qualunque più dura volontà si può infrangere; il timore del turbine fulmineo che in un attimo può avviluppare qualunque più tenace e audace uomo per trascinarlo ben lontano dalla mèta prefissa. Fermai il cavallo. La via in quel punto era deserta; il palafreniere mi seguiva a distanza. Un silenzio altissimo regnava i luoghi grandiosi e solitarii, rotto a intervalli dal susurro degli oliveti; una luce immobile illuminava tutto egualmente; e nella luce e nel silenzio, dalle ésili foglie alle rocce gigantesche, le cose apparivano disegnate con una nitidezza di contorni quasi cruda. Meglio sentii allora quel che di ambiguo era entrato in me. E pensai: «Non aveva io fino a ieri ottenuto nel mio spirito la stessa perspicuità mattutina che rivela tutte le linee di questa contrada alla mia vista attenta? E ora non nasconde la nuova ambiguità un qualche pericolo? Forse una troppo grande copia di poesia s'è accumulata in me, pericolosamente, nella solitudine; e deve spandersi senza misura. Ma, se io mi abbandono al torrente impetuoso, fin dove sarò trascinato? Gioverà forse ancóra la vigilanza contro la vita estranea; gioverà forse non entrare nel cerchio che mi si apre d'avanti all'improvviso come un'opera di magia per includermi.» E il demònico mi ripetè con chiara voce: «Non temere! Accogli l'ignoto e l'impreveduto e quanto altro ti recherà l'evento; abolisci ogni divieto; procedi sicuro e libero. Non avere omai sollecitudine se non di vivere. Il tuo fato non potrà compiersi se non nella profusione della vita.» Spinsi il cavallo al trotto, quasi con veemenza, come se in quel punto un grande atto fosse stato risoluto. E Trigento apparve sul declivio del poggio con le sue case di pietra figliate dalle rocce tutelari. Alla sommità apparve l'antico palazzo col suo giardino murato che discendeva sul declivio opposto sino al piano dando imagine d'un vasto claustro pieno di cose obliate o estinte. Quando posi il piede a terra, d'avanti al cancello; udii la voce di Oddo che stava alla vedetta. - Benvenuto, Claudio! Egli mi corse incontro festoso come la prima volta, con le braccia tese. - Credevo che tu venissi più presto - disse con un tono di rimprovero. - Ti aspetto qui da due ore. - Mi sono indugiato per la via - risposi. - Ho voluto riconoscere gli alberi e i sassi.... Con uno di quei suoi atti repentini e disordinati, misto di curiosità e di timidezza, egli si accostò al mio cavallo e gli palpò il collo. - Com'è bello! - mormorò, mentre sotto la sua mano pallida e gracile il collo dell'animale aveva una rapida vibrazione di sensibilità. - Lo potrai montare quando vorrai - io gli dissi. - Questo o un altro. - Credo che non mi reggerei più in sella - rispose. - Credo che avrei paura.... Ma vieni! Vieni! Sei aspettato. E mi condusse su per un viale compreso tra pareti di bosso indebolite dalla vecchiezza, sparse di radure profonde come buche, donde sembravami escissero freschi odori d'invisibili violette, strani come aliti giovenili in bocche deformi. - Iersera - diceva Oddo, un poco in affanno - iersera con i tuoi mandorli portammo la gioia.... Che provammo quando rimanemmo noi due in fondo a quella carrozza, seppelliti sotto tutti quei fiori! Antonello era come un bambino. Non l'avevo mai veduto così.... A intervalli le pareti verdi s'aprivano in archi scoprendomi allo sguardo lembi di terra erbosa ove qualche lunga ed esigua lista di sole fendeva l'ombra con un taglio netto. - Non l'avevo mai veduto così; non gli avevo mai sentito dire tante parole insensate.... Urne di pietra dai larghi fianchi rotondi si alternavano con statue quasi vestite dai licheni, monche o acefale, in attitudini che mi parevano eloquenti. E alcune giunchiglie fiorivano presso i loro plinti. - Quando poi arrivammo qui, non potevamo scendere perchè i rami c'ingombravano. Le sorelle vennero a liberarci. Come erano felici! Risalirono cariche. Le sentivamo ridere su per le scalee. Tutte cose nuove, Claudio, per noi. Mi giungeva all'orecchio una voce soffocata; che era il chioccolio sommesso d'una fontana nascosta nella vicinanza. E un'ansietà indefinibile mi premeva il cuore. - Tutta la sera abbiamo parlato di te, ricordato tante cose del tempo lontano, fatto anche qualche sogno per l'avvenire. Chi avrebbe mai potuto imaginare il tuo ritorno? Ma nessuno di noi crede ancora che tu rimanga.... Ci sembra che, dopo qualche giorno, tu debba fuggire. Non è facile resistere a questa nostra vita. Massimilla, vedi, preferisce il monastero.... Non sai che Massimilla sta per lasciarci? Come io saliva rasente la parete vegetale, un forte sentore d'amarezza mi prendeva le nari emanato dalle piccole foglie nuove del bosso che brillavano in guisa di berilli tra il verde opaco. - Ah, ecco Violante! - esclamò Oddo toccandomi il braccio. L'apparizione improvvisa mi diede un gran palpito; e sentii che il mio volto si colorava. Ella era sotto un alto arco di bosso, con i piedi nell'erba; e un lembo di prato per l'apertura si dileguava, in liste d'oro, dietro la sua persona. Sorrideva senza avanzare, attendendo che noi le giungessimo da presso; e pareva ch'ella offrisse al mio sguardo attonito la sua bellezza intera in quell'attitudine calma, su quella soglia verde ove forse le sue dita avevano reciso le numerose viole che le ornavano la cintura. Mi tese la mano guardandomi in volto, e mi disse con una voce che era la perfetta espressione musicale della forma onde esciva: - Siate il benvenuto. Noi vi aspettavamo già da ieri. Oddo e Antonello ci portarono invece il vostro dono, che non fu meno gradito. Io le dissi: - Rientro nel vostro dominio dopo molti anni ricordandomi che ci venni la prima volta accompagnando mia madre, e già provo il rammarico d'esserne rimasto troppo tempo lontano. Partendo da Roma io sapevo che avrei trovato a Rebursa una casa vuota ma non sapevo che Trigento mi avrebbe compensato con tanta larghezza. Io vi debbo molta riconoscenza.... - Vi dovremo noi riconoscenza - ella interruppe - se non vi parrà grave la nostra compagnia. Voi sapete che questo luogo è senza gioia. - Anche la tristezza ha la sua bontà per chi la sa gustare, non è vero? - Forse. - E poi, veramente, da che ho oltrepassato il cancello, io non ho qui se non sensazioni squisite. Questo grande giardino mi sembra delizioso. Come si può non sentire la poesia della sua vecchiezza? Ieri, quando vidi Oddo e Antonello pieni di meraviglia d'avanti a quei mandorli come se non avessero mai guardato un albero fiorito, pensai che qui tutto fosse arido e morto. Invece trovo qui dentro una primavera più dolce di quella che ho lasciata fuori. Non vi siete voi forse stancata a cogliere le mammole nell'erba? Ne avete carica la cintura! Ella sorrise abbassando gli occhi sul suo fianco e toccando con le sue dita nude le viole che l'ornavano. - Voi venite dalla città - ella disse con quella sua voce sonora ma pur velata, in cui la ricchezza del timbro era un poco spenta come da un'incrinatura esilissima - voi venite dalla città e la campagna vi dà le sue primizie. - Non so; ma certe cose debbono sembrar sempre nuove. - Noi non le vediamo e non le amiamo più, certe cose - disse Oddo con malinconia. - Forse Violante non sente l'odore dei fiori che coglie. - È vero? - le chiesi volgendomi verso di lei, incontrando con gli occhi il suo profilo marmoreo reclinato sotto la capellatura voluminosa e divenuto impassibile come quello delle statue immortali. - Che cosa? - ella domandò, in atto di chi torni da un'assenza, non avendo udito le parole del fratello. - Dice Oddo che voi non sentite l'odore dei fiori che cogliete. È vero? Un tenue rossore le colorì il sommo delle gote. - Oh no! - rispose con una vivacità che contrastava i ritmi lenti cui pareva sottomessa la sua vita. - Non credete a Oddo. Egli dice così perchè io amo i profumi acuti; ma sento anche i più deboli, sento anche quelli delle pietre.... - Delle pietre? - fece Oddo ridendo. - Che sai tu, Oddo? Taci. Eravamo su per le grandi scalee coperte di pergole, salienti in ordinanza simmetrica verso il palazzo; ed ella ascendeva tra noi due, con lentezza, di grado in grado. Poichè i gradi erano assai larghi, ella su ciascuno faceva un passo e si soffermava un istante prima di sollevare il piede sul rialto, successivamente; e la vicenda voleva ch'ella sollevasse sempre il medesimo piede. Affaticata dalla frequenza dell'atto, ella abbandonava alquanto il busto su la flessione del ginocchio rilasciando la volontà orgogliosa che pur dianzi ergeva la sua figura a similitudine del perfetto stelo. Una mollezza impreveduta ondeggiava allora nel corpo superbo; un ritmo nuovo ne rivelava le grazie quasi direi obedienti, le virtù pieghevoli di amore. Così forte era il potere emanato da quella creatura bella che io non sapevo distrarre i miei occhi dai suoi moti; e mi trattenevo in dietro per circondarla col mio sguardo intera. Ella pareva respingere il mio spirito verso l'epoca meravigliosa in cui gli artefici estraevano dalla materia dormente le forme perfette che gli uomini consideravano come le sole verità degne di essere adorate in terra. E io pensava, guardandola, salendo dietro la sua traccia: «È giusto ch'ella rimanga intatta. Ella non potrebbe essere posseduta senza onta se non da un dio.» E, mentre il suo capo sovrano passava nella luce come in un elemento natale, io sentivo che la sua bellezza era per attingere la perfezione della maturità, l'ora breve del massimo pregio; e ringraziavo la fortuna d'avermi concesso un tanto spettacolo. «Ah io l'adorerò ma non oserò amarla; non oserò guardare nella sua anima per sorprendere il suo segreto. Pure ogni suo moto rivela ch'ella è fatta per l'amore; ma per l'amore sterile, per la voluttà che non crea. Giammai le sue viscere porteranno il peso difformante; giammai l'onda del latte sforzerà il puro contorno del suo seno.» Ella si arrestò impaziente dello sforzo, un poco anelante; e disse: - Come affaticano questi gradi! Facciamo una sosta qui, se non vi dispiace. - Antonello e Anatolia scendono - avvertì Oddo scorgendo i due vegnenti attraverso l'intrico della pergola nella scalea superiore. - Aspettiamoli. Veniva verso di noi quella che m'era stata rappresentata come la datrice di forza, la vergine benefica e possente, l'anima ricca e prodiga. Ella già appariva come un sostegno, poichè Antonello teneva il suo braccio sotto il braccio di lei misurando il suo passo incerto su la cadenza di quel passo sicuro. - Di quale fra noi - mi domandò Violante all'improvviso ma con un accento leggero che toglieva alla domanda ogni senso indiscreto - di quale tra noi avevate un ricordo meno confuso? Esitai un istante. - Non saprei dirvelo - risposi incerto, mentre il mio orecchio si tendeva al fruscio della veste di Anatolia. - Ma, senza dubbio, le figure del mio ricordo non hanno quasi nulla di comune con la realtà presente. Dal giorno che io mi allontanai, si è svolto per noi quel periodo della vita in cui le trasformazioni sono più rapide e più profonde.... I due già sopraggiungevano. Anche Anatolia disse, tendendomi la mano: - Siate il benvenuto. E il suo gesto aveva una franchezza virile; e la sua mano nel contatto parve comunicarmi quasi direi un senso di forza generosa e di bontà efficace, parve d'improvviso infondere nel mio spirito una specie di confidenza fraterna. Era una mano spoglia di anelli, non troppo bianca, nè troppo allungata, ma robusta nella sua forma pura, atta a raccogliere e a sostenere, pieghevole e ferma nel tempo medesimo, con un'impronta di fierezza sul dosso variato dai rilievi delle congiunture e dalle trame delle vene, con solchi di dolcezza nella palma concava e tiepida dove pareva risiedere un focolare irradiante di sensibilità. - Siate il benvenuto - disse la calda voce cordiale. - Voi ci portate da Roma il sole e la primavera.... - Oh no! - interruppi. - Io trovo qui l'uno e l'altra. A Roma ho lasciato la nebbia e molte simili cose grige. Esprimevo dianzi il rammarico d'esser rimasto troppo tempo lontano. - Tu dovrai dunque compensarci della dimenticanza - fece Antonello, con quel suo sorriso penoso. - Come trovate Trigento? - mi domandò Anatolia. - Quasi in nulla mutato; è vero? Voi venivate qui con vostra madre.... Ve ne ricordate bene; è vero? Noi non avremmo potuto dimenticarlo; nè potremo mai. Troverete qui, tra le cose rimaste intatte, la memoria della santa anima, di quella immensa bontà. Un silenzio grave seguì le sue parole evocatrici. Per qualche attimo il sentimento della morte, addensatosi intorno al mio cuore filiale, diede anche agli esseri e alle cose presenti un aspetto d'inesistenza. Mi parve, per qualche attimo, che tutto divenisse lontano e vacuo non meno di quel cielo ch'io vedevo impallidire a traverso le nude viti della pergola simili a una rete lógora. Ma nel dileguarsi dell'illusione breve, mi sentii più avvicinato a colei che l'aveva prodotta; e mi sentii incapace di disperdermi ancora in parole oziose, provando il bisogno di penetrare nella verità di quella tristezza. - E Donna Aldoina? - chiesi a voce bassa, rivolto verso Anatolia, comunicando ora con lei sola. Non era ella forse la vera custode dell'abitazione oscura? Evocando la morta, non aveva ella medesima suscitato l'imagine della demente? - È rimasta così, sempre - rispose, a voce bassa anch'ella. - Meglio per voi non vederla, almeno per oggi. Vi farebbe troppa pena. E per noi, imaginate!, è il supplizio di tutti i giorni; un supplizio che dura da anni, senza tregua, disfacendoci l'anima.... I suoi occhi in un batter di palpebre gittarono ad Antonello uno sguardo furtivo, dove io potei leggere il segreto terrore che le ispirava il povero infermo pericolante su l'orlo dell'abisso. - Non abbiamo mai avuto il coraggio di separarcene, di allontanarla - soggiunse - perché non è violenta anzi è dolce. Qualche volta sembra guarita, ci dà quasi l'illusione d'un miracolo; ci chiama per nome, si ricorda d'un piccolo fatto lontano, ha il sorriso calmo. Benchè sappiamo oramai che tutto questo è un inganno, pure ogni volta la speranza ci fa palpitare, ogni volta l'ansietà ci soffoca. Voi comprendete.... La sua voce nel dolore perdeva il suono come una corda che s'allenti. - Non è possibile confinarla nelle sue stanze, tenerla chiusa; non è possibile. Nè abbiamo cuore di sfuggirla quando si mostra, quando ci viene incontro, quando ci parla. Così, quasi di continuo, vive al nostro fianco, si mescola alla nostra esistenza.... - Certi giorni - interruppe d'improvviso Antonello, quasi con impeto, come spinto da un'eccitazione infrenabile - certi giorni tutta la casa è piena di lei. Noi respiriamo la sua follia. Qualcuno di noi rimane ore ed ore a sentirla parlare, seduto di fronte a lei seduta, con le mani imprigionate in quelle mani che tremano.... Comprendi? Un nuovo silenzio, più grave, cadde su noi tutti. E ciascuno di noi soffriva riconoscendo in sé la realtà del dolore che le esili ombre azzurrine della pergola miste all'oro docile del sole involgevano come in un velario di sogno. S'udiva nel silenzio il suono d'un passo leggero che s'avvicinava su per le scalee di sotto. S'udiva a intervalli eguali uno scroscio sordo come d'un bacino che trabocchi. Una vibrazione misteriosa pareva salire dal giardino solitario. E io compresi come l'anima debole e triste potesse con quelle apparenze comporre il fantasma d'una vita innaturale e alimentarlo di sé e restarne sopraffatta. Così, subitamente, mi si rivelava nella sua atrocità il supplizio a cui il Destino aveva condannato quegli ultimi superstiti d'una stirpe caduta; e la figura evocata dalle parole d'una vittima certa mi appariva ingigantita sotto una luce tragica. Io vedeva nella mia imaginazione la vecchia principessa demente, seduta nell'ombra di una stanza remota, e uno de' suoi figli chino verso di lei, con le mani imprigionate nelle mani materne. L'atto della lugubre fascinatrice mi sembrava fatale e inesorabile. Mi sembrava ch'ella dovesse inconsciamente attrarre nella sua follia tutte le creature del suo sangue, l'una dopo l'altra, e che nessuna di loro potesse sottrarsi alla volontà cieca e crudele. Simile a una Erinni familiare, ella presiedeva alla dissoluzione della sua progenie. Allora, a traverso l'arido intrico, guardai in alto il palazzo silenzioso che nella sua oscura profondità aveva chiuso sino a quel giorno tanta angoscia disperata e aveva nascosto tante lacrime inutili: - lacrime espresse da occhi puri e ardenti, degni di riflettere i più superbi spettacoli del mondo e di versare la gioia in anime di poeti e di dominatori. «Occhi della Bellezza!» pensai riconducendo il mio sguardo verso Violante immobile. «Quale miseria terrena può velare lo splendore della verità che in voi riluce? Quale anima afflitta può disconoscere la virtù consolatrice che da voi fluisce?» La mia sofferenza cessava subitamente come per il potere di un balsamo; le imagini torbide si dileguavano come un tristo vapore. Ella era immobile, seduta su un plinto di pietra che un tempo aveva forse sostenuto un'urna. Poggiato il gomito sul ginocchio, ella si reggeva il mento con la palma; e tutta la sua figura nell'attitudine semplice mi offriva quella successione di mute cadenze in cui è il segreto dell'arte suprema. Anche una volta io la considerai presente e pur discosta. Su la sua fronte breve era visibile il riflesso della corona ideale ch'ella portava in sommo de' suoi pensieri; e i suoi capelli, costretti su la nuca in un gran nodo, parevano avere obbedito al ritmo che regola i riposi del mare. - Massimilla - disse Oddo annunziando la terza sorella. Io mi volsi e la vidi già prossima. Ella saliva gli ultimi gradi, col suo passo lieve, recando sul volto e in tutta la persona i vestigi del sogno in cui s'era immersa, l'intima poesia dell'ora trascorsa con un libro fedele nella solitudine d'un recesso noto a lei sola. - Dove sei stata? - le chiese Oddo, prima ch'ella giungesse fino a noi. Ella sorrise con timidezza; e una tenue fiamma le tinse le gote ondulate. - Laggiù - rispose - a leggere. La sua voce era liquida e argentina tra le labbra esigue. Il suo libro aveva per segnale tra le pagine un filo d'erba. Come io m'inchinai, ella mi porse la mano continuando il suo sorriso timido. E parve risvegliare in fondo alla mia anima qualche cosa di quella tenera compassione da me provata nel tempo lontano verso la piccola inferma visitata da mia madre; poiché la sua mano era tanto gracile e soave che mi diede imagine d'uno di quei fini gigli, chiamati emerocàli, fiorenti per un giorno nelle arene calde. Com'ella non mi parlò, anch'io non seppi trovare le delicate parole che convenivano alla sua pavida grazia di ermellino. - Vogliamo dunque salire? - disse Anatolia volgendosi a me e rompendo con la sua voce chiara quella specie d'incantamento inerte che nel tepore della pergola i nostri pensieri e le nostre malinconie non esprimibili avevano formato vaporando. - Nostro padre ha molto desiderio di rivedervi. E riprendemmo insieme a salire per le scalee verso il palazzo. Le tre sorelle ci precedevano, l'una discosta dall'altra, prima Anatolia, Massimilla ultima, proferendo alcune parole, alternativamente, poiché il silenzio delle cose chiedeva il suono delle loro voci ed esse credevano forse dissipare di sul capo dell'ospite la tristezza del silenzio. Quelle brevi onde sonore, sgorgando dalle labbra che io non vedevo, dichinavano investendomi; e io salivo quindi nelle voci e nelle ombre virginee, come nelle parvenze d'un prestigio, attonito e perplesso. Ma se i tre ritmi al mio udito erano alterni, alla mia vista erano simultanei e continui, così che il mio spirito a volta a volta si tendeva curioso per distinguerli o si faceva quasi direi concavo per fonderli in una armonia profonda. E, come quelli episodii che nella fuga riempiono il silenzio del tema, gli aspetti delle cose al passaggio o le particolarità delle figure entravano ad arricchire il mio sentimento musicale, senza turbarlo. Erano i segni dell'abbandono e della dimenticanza sparsi su per le antiche scalee qua e là ancora ingombre dalle spoglie dell'ultimo autunno. La statua d'una ninfa giacente teneva nel sonno la testa china in atto di pena, poiché il sostegno del braccio mancava alla sua tempia maculata dal musco. In un vaso d'argilla rossastra, lungo come un sarcofago, occupato dalle dure erbe selvagge, una sola pianticella di giunchiglia fioriva debole e tremula fra l'invasione ostile. In una rovina del parapetto disgregato dalle radici penetranti dell'edera, appariva scoperto un canale interno simile a una arteria rotta; e vi si scorgeva il luccichio e vi si udiva il susurrio dell'acqua che scendeva a riempire il cuore delle fontane piangenti. Erano i segni dell'abbandono e della dimenticanza sparsi lungo la nostra salita. La statua, il fiore e l'acqua mi dicevano una medesima verità. E Violante e Massimilla e Anatolia si trasfiguravano nella mia mente per virtù di analogie misteriose. «O belle anime» io pensava, misurando i ritmi della loro esistenza visibile «nella vostra trinità non è forse la perfezione dell'amore umano? Voi siete la forma triplice che finse il mio desiderio nell'ora della grande armonia. In voi tutti i bisogni della mia carne e del mio spirito più altieri potrebbero appagarsi; e, per l'opera ch'io debbo compiere, voi potreste divenire gli strumenti meravigliosi delle mie volontà e dei miei destini. Non siete voi quali io vi avrei create per ornare di una bellezza e di un dolore sublimi il mondo occulto di cui sono l'artefice infaticabile? Oggi non conosco di voi se non le sembianze e qualche parola fugace; ma sento che domani ciascuna di voi in tutto il suo essere corrisponderà all'imagine che dentro di me respira e palpita.» Così le tre sorelle salivano nella mia aspirazione e nella mia preghiera, ciascuna obbedendo alla musica segreta che conduceva la sua vita verso il termine incognito. E le loro figure gettavano su la pietra grandi ombre. Quando posi il piede su la soglia, l'imagine fantastica della demente mi riapparve così viva e così fiera ch'io n'ebbi un segreto brivido. Tutto il luogo mi sembrò tenuto dalla sua dominazione sinistra, attristato e atterrito dalla sua onnipresenza. Mi sembrò di leggere nel volto dei figli la mia stessa inquietudine. E pensai che l'avremmo trovata in cima della scala ad aspettarci. Indovinando il mio pensiero, Anatolia mi disse piano, per rassicurarmi: - Non vorrei che temeste.... Voi non la vedrete.... Ho potuto fare in modo che non la vediate, in queste ore almeno.... Cercate di non pensarci, perché non vi sembri troppo triste la nostra ospitalità. Antonello guardava su per le vetrate delle logge che circondavano il cortile, vigilando con quei suoi occhi inquieti su cui palpitavano di continuo i cigli. - Vedi l'erba? - esclamò Oddo, indicandomi il verde che cresceva lungo i muri, negli interstizii delle lastre. - Segno e augurio di pace - io dissi, cercando di scuotere da me l'oppressura e di risollevarmi. - Mi dispiacque di non trovarla ieri nel mio cortile. L'avevano tolta, mentre io l'avrei preferita alle foglie festive del mirto e del lauro. Bisogna lasciar crescere l'erba, specialmente nelle case troppo grandi. È una cosa viva di più. Il cortile era sonoro come una navata; e gli echi vi erano pronti a raccogliere pur le parole sommesse. Guardando la fontana muta, pensai le musiche misteriose a cui l'acqua avrebbe potuto invitare quegli echi attenti e favorevoli. - Perchè la fontana tace? - domandai, volendo cogliere tutte le occasioni per sostenere la causa della vita in quel claustro pieno di cose obliate o estinte. - Dianzi, su per la scalea, ho sentito correre l'acqua. - Rivolgetevi ad Antonello - disse Violante. - Egli ha imposto il silenzio. Il povero infermo si colorò lievemente nel volto e s'intorbidò negli occhi come chi sia per cedere a un impeto d'ira. Quasi pareva che la denunzia innocua di Violante gli facesse onta e dolore o che riaprisse una disputa già composta. Si contenne; ma il dispetto gli alterò la voce. - Imagina, Claudio, che le mie stanze sono proprio là - disse, indicando un lato della loggia - e che di là si sente la fontana scrosciare come una cascata. Imagina! Un rumore che toglie il senno: incredibile. Già, non senti che rimbombo ha la voce qui? Di giorno! In tutto il suo corpo lungo e scarno vibrava l'avversione contro lo strepito, l'orrore nervoso, l'aborrimento invincibile di cui egli mi aveva già dato i segni il giorno innanzi nell'udire i colpi delle carabine e le grida umane. - Ma vorrei che tu sentissi, di notte - seguitò eccitandosi. - Vorrei che tu sentissi! L'acqua non è più l'acqua; diventa un'anima perduta che urla, che ride, che singhiozza, che balbetta, che sbeffa, che si lagna, che chiama, che comanda. Incredibile! Qualche volta, nell'insonnio, ascoltando, ho dimenticato che fosse l'acqua; e non ho potuto più ricordarmene.... Intendi? Egli s'arrestò d'un tratto, con uno sforzo palese per dominarsi; e guardò Anatolia, smarritamente. La pena che contraeva il volto di lei scomparve sotto quello sguardo, s'internò, si nascose. Ed ella, come per dissipare il malessere che ci teneva tutti, disse con un'aria quasi gaia: - Veramente, Antonello non esagera. Volete che evochiamo l'anima perduta? È facile. Eravamo tutti là, presso la fontana arida. La sosta imprevista e le parole e l'aspetto del tormentato e la solennità del luogo chiuso e la freddezza argentina della luce che vi pioveva dall'alto e l'imminenza della metamorfosi parevano conferire a quella vecchia cosa inerte quasi il mistero d'un'opera di magia. La mole marmorea - componimento pomposo di cavalli nettunii, di tritoni, di delfini e di conche in triplice ordine - sorgeva innanzi a noi coperta di croste grigiastre e di licheni disseccati, biancheggiante qua e là come il tronco del gáttice; e le sue molte bocche umane e bestiali parevano quasi aver conservato nel silenzio l'attitudine della liquida voce ultimamente prodotta. - Scostatevi - soggiunse Anatolia chinandosi verso un disco di bronzo che chiudeva un'apertura circolare nel lastrico presso il margine del bacino inferiore. - Do l'acqua. Ed ella mise le dita nell'anello che sporgeva dal centro del disco e tentò di sollevare il peso; ma, non riuscendo, si rialzò invermigliata nel volto dallo sforzo. Come io le venni in aiuto ed apersi, ella di nuovo si chinò e di sua mano ritrovò il congegno nascosto. Indietreggiammo entrambi, con un moto concorde, mentre s'udiva già borbogliare l'acqua saliente su per le vene della fontana esanime. E fu un attimo di aspettazione ansiosa, quasi che le bocche dei mostri dovessero dare un responso. Involontariamente io imaginai la voluttà della pietra invasa dalla fresca e fluida vita; finsi in me medesimo l'impossibile brivido. Le bùccine dei tritoni soffiavano, le fauci dei delfini gorgogliavano. Dalla sommità uno zampillo eruppe sibilando, lucido e rapido come un colpo di stocco vibrato contro l'azzurro; si franse, si ritrasse, esitò, risorse più diritto e più forte; si mantenne alto nell'aria, si fece adamantino, divenne uno stelo, parve fiorire. Uno strepito breve e netto come lo schiocco d'una frusta echeggiò da prima nel chiuso; poi fu come uno scroscio di risa poderose, fu come uno scoppio di applausi, fu come un rovescio di pioggia. Tutte le bocche diedero i loro getti, che si curvarono in arco a riempire le conche sottoposte. La pietra bagnandosi qua e là si copriva di macchie oscure, luccicava nelle parti levigate, si rigava di rivoli sempre più spessi: - infine gioì tutta quanta al contatto dell'acqua, parve aprire alle gocce innumerevoli tutti i suoi pori, si ravvivò come un albero beneficato da una nube. Rapidamente le cavità più anguste si riempirono, traboccarono, composero corone argentee di continuo distrutte, di continuo rinnovellate. Come si moltiplicavano i giochi istantanei giù per la diversità delle sculture, crescevano i suoni ininterrotti formando una musica sempre più profonda nel grande echéggio delle pareti. Gagliardi, su la volubile sinfonia dell'acqua cadente nell'acqua, dominavano gli scrosci e gli schianti dello zampillo centrale che frangeva contro le cervici dei tritoni i fiori miracolosi fiorenti d'attimo in attimo alla cima del suo stelo. - Senti? - esclamò Antonello che guardava quel trionfo con occhi di nemico. - Ti sembra tollerabile a lungo, questo frastuono? - Ah, io starei ore e giorni ad ascoltare - parvemi dicesse Violante mettendo su la sua voce un velo più grave. - Nessuna musica vale questa, per me. Ella era rimasta tanto vicina alla fontana che riceveva su la persona gli spruzzi dei getti, e aveva già i capelli sparsi d'un pulviscolo lucente. Il potere della sua bellezza anche una volta escludeva dal mio spirito qualunque pensiero estraneo, qualunque imagine discordante. Anche una volta ella m'appariva isolata e intangibile, fuori della vita comune, piuttosto simile a una finzione dell'arte che a una creatura di nostra specie. Tutte le cose intorno riconoscevano la sovranità della sua presenza poichè tutte si riferivano e si sottomettevano e si accordavano alla sua bellezza. Come già il grande arco verde ch'erasi incurvato su lei nel primo apparire, come già l'antico plinto che l'aveva sostenuta, quel sonoro vase aperto verso il cielo sembrava creato per lei sola, sembrava rispondere perfettamente all'armonia ideale ch'ella effettuava con la sua semplice attitudine. Segrete affinità, non intelligibili, congiungevano al suo essere le cose più diverse, rapportavano i circostanti misteri al suo mistero. Poichè la natura aveva manifestato per mezzo di tal forma umana una sua idea di perfezione somma, sembravami che ogni altra idea racchiusa in ogni altro naturale involucro dovesse necessariamente servire come un segno per condurre lo spirito del contemplatore a comprender quella altissima ed unica. Onde avvenne che, considerando la vergine presso la fontana, io trovassi e cogliessi una pura verità. «Quando la Bellezza si mostra, tutte le essenze della vita convergono in lei come in un centro; ed ella ha quindi per tributario l'intero Universo.» - Una delle nostre pene - mi diceva Oddo mentre salivamo per l'amplissima scala balaustrata sul cui silenzio gli svolazzi e i nuvoli delle allegorie secentesche simulavano la furia d'una bufera - una delle nostre pene è questo spazio; che ci dà una specie di smarrimento continuo e quasi un senso di diminuzione umiliante... Troppo ampio e troppo vacuo era infatti l'edificio. Restaurato nel secolo XVII e da ròcca feudale trasformato in villa di delizia, conservava tuttavia l'enormità formidabile delle sue mura e delle sue volte su cui le epoche successive avevano lasciato impronte varie di arte e di lusso talora in contrasto e talora sovrapposte. Il gran numero degli specchi, ond'erano coperte intere pareti, moltiplicava lo spazio all'infinito. E nulla era più triste di quei pallidi abissi illusorii che sembravano schiudersi in un mondo soprannaturale e allo sguardo dei viventi promettere d'attimo in attimo apparizioni funeree. - Claudio, figliuolo mio! - esclamò con voce commossa il principe Luzio, appena mi vide, venendomi incontro. - Caro, caro figliuolo! Sentii tremare quel vecchio corpo esausto, quando egli mi abbracciò e mi baciò in fronte con atto paterno. Tenendo ancora una mano su la mia spalla, egli mi fissò poi lungamente in volto come trasognato mentre nell'azzurro cinereo dei suoi occhi indeboliti passava un'onda di memorie, di cordogli e di rimpianti. - Come rammenti tuo padre! - soggiunse con la voce sempre più affettuosa, comunicandomi la sua commozione. - È una somiglianza incredibile. Mi pare di rivedere Massenzio nella sua gioventù, quand'eravamo compagni nei Cavalleggieri della Guardia.... Mi pare di rivederlo vivo. Come gli somigli, figliuolo mio! Egli mi prese per la mano e mi condusse verso la finestra, quasi volesse appartarsi con me e attrarmi nella evocazione delle cose lontane. - Come gli somigli! - ripetè quando il mio volto gli apparve alla chiara luce. - Oh se l'anima benedetta vivesse ancora! Non doveva morire, mio Dio, non doveva morire. Egli scoteva il capo, in atto di rammarico, verso il fantasma di quella bellissima vita troppo presto recisa. E tanta era la sincerità del suo affetto che io ne fui penetrato sin nel fondo dell'anima; e non più mi sentii estraneo in quella casa dove io ritrovavo la memoria dei miei morti conservata così puramente. - Guarda - soggiunse il principe sfiorando con le dita i fili estremi della sua barba candida e sorridendo d'un sorriso in cui travidi un che della nobile dolcezza di Anatolia - guarda come sono invecchiato! Egli mostrava in tutta la persona un accasciamento penoso, ma lo splendore della canizie precoce conferiva alla sua testa una maestà veneranda; e nella fronte egli portava ancor vivida la nota ereditaria della sua stirpe dominatrice. Le sue mani, quasi per miracolo, non avevano sofferto alcuna ingiuria dalla malattia e dalla vecchiezza, non mostravano alcuna deformazione senile. S'erano conservate belle e pure, come rese inalterabili da un balsamo, quelle prodighe mani con cui il signore munifico aveva dissipato la ricchezza su la via dell'esilio per mantener più a lungo negli occhi del suo Re un riflesso della regalità caduta. E quasi a memoria dei tesori profusi risplendeva su l'anulare un cammeo. Quelle mani con i loro gesti lenti, mentre il torpido sangue si ravvivava al calore dei ricordi, parevano trarre da una zona d'ombra qualche lembo d'un mondo estinto; e tale officio le rendeva agli occhi del mio spirito più singolari. Quando il vecchio essendo seduto le posò lungo i bracciuoli, entrambe mi divennero simili a reliquie e io le considerai con un sentimento sconosciuto di rispetto quasi superstizioso. Esse fecero sì che in quell'ora io mi credessi di vivere nella mia poesia e non nella realtà degli atti, indicibilmente. Poichè il mio sguardo restava fisso nella gemma effigiata, il principe sorrise dicendo: - È il ritratto di Violante. E si tolse l'anello, e me lo porse. L'opera sottile era d'artefice antico, non indegna di Pirgotele o di Dioscoride; ma il divino lineamento medusèo, rilevato sul campo sanguigno del sardonio, corrispondeva con tanta perfezione alla sembianza della creatura superba che io pensai: «Veramente ella dunque illuminò l'arte delle età scomparse e da tempo immemorabile conferì alle materie durevoli il privilegio di perpetuare l'Idea ch'ella oggi incarna!» - La madre, quando incinse di lei, portava quest'anello - soggiunse il principe col medesimo sorriso dolce - e lo guardava sempre. Per tali modi, a ogni momento, le concordanze delle cose ponevano il mio spirito in uno stato ideale che s'avvicinava allo stato del sogno e della prescienza pur senza attingerlo, porgendo esse una materia armonica alla mia sensibilità e alla mia imaginazione. E io assistevo in me medesimo alla continua genesi d'una vita superiore in cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio. Le tre elette creature parevano illuminarsi e oscurarsi vicendevolmente; e le ombre e i lumi avevano in loro le significazioni d'un linguaggio che io già interpretavo con una straordinaria lucidità come se da gran tempo mi fosse familiare. Onde io rimasi abbagliato non solo dai riverberi della roccia ma anche dai baleni confusi del mio pensiero percosso, quando Violante avvicinandosi a una finestra aperta mi mostrò uno spettacolo ch'ella avrebbe potuto creare con un gesto e mi disse: - Guardate. Era una finestra rivolta a settentrione, nella faccia del palazzo opposta al giardino; ed era spalancata su una voragine. Come mi sporsi, una specie di vibrazione impetuosa mi attraversò tutto l'essere esaltandolo d'improvviso al sentimento d'una grandezza muta e terribile. «È forse questo il vostro segreto?» io chiesi alla rivelatrice; ma senza parole, tanto al suo fianco sembravami parlante il silenzio. Il dirupo scendeva quasi a picco, sotto i contrafforti massicci da cui era munita la muraglia settentrionale, profondandosi fino a un aspro alveo biancastro che pur nella sua aridità minacciava le rovinose collere del torrente. Con la stessa violenza atroce e disperata con cui i fiumi di lava discesi al mare siciliano rimbalzarono si drizzarono si contorsero neri e rossi stridendo ruggendo fischiando al primo contatto dell'acqua, con la stessa violenza la roccia dalla bassura dell'alveo si rialzava e si scagliava contro il cielo opponendo alla muraglia costruita dagli uomini una massa gigantesca travagliata da un muto furore. Tutte le più crude convulsioni e contrazioni dei corpi posseduti da energie demoniache o da spasimi letali, tutte parevano fisse in quella compagine orrida come la balza ove Dante ebbe l'indizio dei nuovi martirii prima di giungere alla riviera del sangue custodita dai Centauri. Tutti i modi delle materie pieghevoli e scorrevoli vi parevano finti a contrasto del duro sasso: i cirri delle capellature ribelli, i viluppi delle serpi azzuffate, gli intrichi delle radici divelte, gli avvolgimenti delle viscere, i fasci dei muscoli, i circoli dei gorghi, le pieghe delle tuniche, i rotoli delle funi. Il fantasma d'una turbolenza frenetica si levava da quella immobilità perfetta a cui il meriggio toglieva qualunque ombra. La palpitazione d'una febbre veemente sembrava compressa dalla crosta inerte. «È questo il vostro segreto?» io ripetei alla rivelatrice, pur senza parole, poiché l'émpito interiore non mi consentiva di scegliere e di dominare i suoni della mia voce. Ella anche taceva, al mio fianco; e io non la guardava né ella mi guardava. Ma, stando noi reclinati verso la roccia multiforme, eravamo congiunti l'uno all'altra da quel fascino che accomuna coloro i quali leggono insieme in un medesimo libro. Noi leggevamo insieme in un medesimo libro affascinante e periglioso. Ella disse, ergendo il capo con un lieve sussulto: - Udite gli sparvieri? E cercammo entrambi con occhi allucinati le vette. - Udite! La roccia assaliva il cielo con un'arme irta di punte, maculata d'un color rossastro come di ruggine o di grumo; e i gridi degli uccelli predaci aumentavano l'impeto della sua fierezza. Allora una vertigine repentina m'investì, che era come l'orrore d'un desiderio e d'un orgoglio troppo vasti. Si risvegliò forse nelle radici stesse della mia sostanza l'ebrietà barbarica dei lontani padri, poiché l'indefinibile turbamento si tradusse in una successione fulminea d'imagini balenanti ove io vidi uomini che mi somigliavano irrompere nella città espugnata, saltare oltre i mucchi dei cadaveri e degli arredi, affondare le spade nelle carni con un gesto infaticabile, portare in arcione le donne seminude a traverso le lingue innumerevoli dell'incendio mentre il sangue saliva al ventre dei loro cavalli agili e crudeli come i leopardi. «Ah io avrei saputo possederti in mezzo alla strage, in un talamo di fuoco, sotto l'ala della morte!» diceva in me l'antica anima a colei che mi stava da presso. «La mia volontà avrebbe saputo costringere al prodigio il mio corpo, e io mi sarei inerpicato su per le pietre lisce di questa muraglia difesa da mille balestre e pur vivo t'avrei tolta.» Pieni della desolazione magnifica e tremenda che s'esaltava nel cielo, i miei occhi incontrarono il volto della vergine così violentemente irradiato dal riverbero che n'ebbero una gioia quasi dolorosa. E io provai un desiderio folle di stringere quella testa fra le mie mani di rovesciarla indietro, di accostarla al mio respiro, di investigarla sempre più da presso, d'imprimerne ogni linea nel mio pensiero, - non dissimile a colui il quale abbia rinvenuto sotto le glebe sterili il frammento sublime da cui il mondo riavrà la gloria di un'idea che pareva estinta. Ella era come la statua collocata in vista del sole oriente: la sua perfezione non temeva la luce. Io vidi nella sua forma corporea l'impronta del tipo eterno e riconobbi nel medesimo attimo la fralezza della sua carne non immune dal fato umano. Ella era come il frutto delizioso che tocca il punto della sua maturità, oltre il quale è il corrompimento. La pelle del suo volto aveva l'ineffabile trasparenza della corolla che domani sarà appassita. «Chi ti sottrarrà al sacrilegio del tempo dissolvitore? Chi ti arresterà con un dardo mortifero su la cima della tua perfezione quando tu accennerai a declinare miseramente?» Le oscure parole del fratello mi risorsero nella memoria: - Violante si uccide coi profumi.... - E in silenzio io la lodai, per il bisogno religioso di celebrarla in ogni suo atto. «O creatura sovrana, sentendoti perfetta tu senti la necessità della morte. Tu senti che la morte sola può preservarti da ogni ingiuria vile; e, poiché tutto in te è nobile, tu mediti di offerire alla custode solenne un corpo regalmente impregnato di profumi.» Qual mai sapore poteva avere per noi, dopo quei sorsi di vino mirrato, la mensa a cui sedemmo? Cose vaghe e trascolorite intorno a me assorto componevano non so che armonia sommessa ove doveva a poco a poco sedarsi la passione comunicata alla mia anima dalla rupe ignea. Le pareti erano coperte di specchi compartiti in giro simmetricamente da colonnette d'oro e nei campi delle compartiture erano dipinti festoni e corimbi di rose in ordine alterno; e gli specchi erano appannati e inverditi come le acque degli stagni soli, e le colonnette erano fini e attorte come le trecce delle fanciulle bionde, e le rose erano languide e pie come le ghirlande che cingono le màrtiri di cera nei tabernacoli. Ma, forse per un omaggio all'ospite donatore, i lunghi rami di mandorlo ingegnosamente fermati ai viticci dei candelabri spandevano l'ancor viva e fresca fioritura di contro agli antichi specchi e riflettendosi e moltiplicandosi nella glauca pallidità creavano la parvenza d'una lontana primavera acquàtile. Tutte quelle cose avevano una tacita gentilezza che scendeva a mescolarsi con la grazia umile di Massimilla; cosicchè sembravami che la vergine già promessa a Gesù partecipasse della loro specie e del loro velamento, e ch'ella già mostrasse il sembiante d'una creatura «partita di questo secolo» come Beatrice nel sogno della Vita nuova, e che nel suo aspetto d'umiltà dicesse anch'ella: «Io sono a vedere lo principio della pace.» Poiché ella m'era di fronte e io la guardava, questa mia imaginazione si fece tanto forte ch'io giunsi a considerar lei assente e vuoto il suo posto per qualche attimo. E subito quel vuoto si empì di un'ombra così cupa che parve quasi la bocca d'un baratro in cui dovessero precipitare l'un dopo l'altro i consanguinei. E io potei per tal modo elevarmi a una visione unica e tragica di tutti quei vivi nel rilievo straordinario che diede loro quel fondo di ombra. Prendevano il cibo seduti intorno alla mensa consueta: facevano i comuni gesti che richiede la necessità naturale, proferivano a quando a quando parole semplici. Ma i loro atti e i loro accenti sembravano accompagnati da un mistero che a volta a volta li gravava di significanze quasi terribili o li rendeva quasi ridevoli come il gioco degli automi. Un contrasto crudelmente palese era tra i modi della funzione vitale ch'essi compievano e i segni della distruzione inevitabile che si compieva in loro. Seduto a destra di Massimilla, Antonello mostrava in tutto il suo contegno una specie d'impazienza repressa, come s'egli fosse costretto a nutrire con le sue mani non sé medesimo ma un estraneo. E, fissandolo io, ebbi in un baleno l'intuito dell'orrore che lo soffocava nel sentire dentro di sé la presenza dell'estraneo forse ancora confusa ma pur non dubbia. E i miei occhi, correndo per istinto su Oddo seduto a sinistra di Massimilla, sorpresero nell'attitudine sua qualche cosa che era come il riflesso attenuato del turbamento fraterno. E nulla mi parve più lugubre di quella rispondenza occulta tra i due fratelli nati in un medesimo parto e sacri a un medesimo fato; nulla mi parve più dolce di quella verginale figura composta tra le loro inquietudini come l'imagine della Preghiera. I fiori di mandorlo esalavano uno strano odore di miele nell'aria tiepida. Talvolta qualche petalo, che pareva divenuto più roseo, cadeva lungo gli specchi come in un silenzio di acque. E io ripensavo la sosta nel frutteto. Ah, veramente, come potevano quei miseri occhi sbigottiti da tanti fantasmi vedere le cose belle e pure? Che facevo io medesimo in quel luogo se non una commemorazione della morte? Tutto si offuscava intorno a simiglianza delle pareti, sembrava retrocedere in un passato lontano; tutto assumeva un aspetto antiquato e stinto, sembrava quasi coprirsi di polvere. I due servi, con le livree azzurre e le lunghe calze bianche, lenti e disattenti, avevano l'aria d'esser venuti fuori da una guardaroba del secolo scorso, tristi avanzi d'un lusso abolito. Quando si ritraevano in disparte, parevano dileguare come ombre nella lontananza illusoria degli specchi, rientrare nel loro mondo inanimato. Ma la voce del principe, assidua risvegliatrice di memorie, trasmutava l'incanto. Tutti tacevano con rispetto, quando egli parlava; e non s'udiva se non la profonda voce senile che a tratti diventava rauca di collera soffocata o tremava di cordoglio e di rammarico. Era quello un giorno nefasto per il vecchio: era l'anniversario della partenza del Re da Gaeta. Compivasi in quel giorno il ventunesimo anno di esilio. - Ebbene - egli diceva, rivolto a me, accendendosi nella sua fede, mentre la bella barba candida gli dava quasi una sembianza profetica - ebbene, Claudio, quando un Re cade come cadde Francesco di Borbone a Gaeta, da martire e da eroe, non è possibile che Iddio non lo risollevi e non gli restituisca il regno. Ascolta la mia parola, figlio di Massenzio Cantelmo, e non dimenticarla. Il Re delle Due Sicilie finirà i suoi giorni in gloria sul suo trono legittimo. E mi conceda Iddio che questo si compia prima ch'io chiuda gli occhi! Ecco l'unico mio voto. Egli componeva al pallido fantasma regale un'apoteosi di fiamme e di sangue su le rovine della città forte. «Ammirabile fede!» io pensava scorgendo le faville che ancora potevano accendersi nell'azzurro cinereo di quegli occhi indeboliti. «Ammirabile fede e vana! La virtù dei Borboni dorme a San Dionigi.» E, poiché nelle parole del vecchio passava l'imagine lampeggiante dell'eroina bávara, più fiero mi risorse il dispetto contro quel re di ventitré anni a cui la Fortuna aveva presentato il cavallo che portò a Parigi Enrico di Navarra, mentre il pusillanime, come Filippo V inebetito, non avrebbe voluto montare se non i cavalli figurati nelle tappezzerie che paravano le sue stanze. «Quale magnifica impresa aveva innanzi a sè quel Borbone, quando uscì dal palazzo di Caserta dove i dottori attendevano a imbalsamare il cadavere del padre coperto di mille piaghe putride!» io pensava, nell'alacrità che mi ridavano le imagini di guerra evocate dal vecchio venerabile. «Nulla gli mancava: neppure lo spettacolo e l'odore della putredine, potentissimi per eccitare i grandi pensieri. In verità, egli aveva tutto: la forza imperiosa dell'antico nome, la giovinezza che seduce e trascina, un reame su tre mari bellissimo e assuefatto alle tirannie, una reggia opulenta in vista d'un golfo ricurvo e sonoro come una cetra, un'appassionata compagna le cui narici feline parevano respirare in un sogno eroico e palpitare di voluttà presentendo l'effluvio elettrico degli uragani. Egli aveva da godere e da difendere tutti questi beni; e, sposo reduce dalla riva estrema dell'altro mare, egli recava ancor nell'orecchio il clamore dei popoli fedeli, ma udiva anche un altro clamore; e l'occasione d'una superba lotta gli si offriva di là dai confini del suo dominio, su campi già irrigati di sangue e fumidi d'una fermentazione violenta, aperti al pensiero più forte, al verbo più nobile e alla spada più veloce. In verità, tutto egli aveva: fuor che la natura del leone. Perché dunque la Fortuna volle imporre il cumulo di tanto favore a un debole agnello? Mai sangue fu più timido in vene giovenili e mai sensualità fu più torpida. La stessa bellezza del dominio legittimo, la divina forma dei lidi, l'aura voluttuosa, il mistero delle notti, tutti gli incanti dell'estate moriente dovevano almeno turbare i sensi di quel giovine e irritare in lui l'istinto profondo del possesso e comunicargli un impeto selvaggio di vita. Ah, l'ultima sera trascorsa nella reggia quasi deserta, abbandonata dai cortigiani, attraversata dai grandi soffii del vento marino che recava i profumi di settembre e la suprema dolcezza del golfo, mentre le cortine investite garrivano diffondendo vaghe paure, mentre i lumi vacillavano e si spegnevano su i tavoli coperti delle tristi carte con cui i servitori creduti più devoti avevan preso congedo nell'ora dell'agonia! E la desolazione di quella partenza nel crepuscolo, su la piccola nave comandata da un uomo della plebe, da uno dei rari fedeli; e l'incontro silenzioso dei vascelli da guerra pieni di tradimento, dati già al nemico; e la lentissima notte insonne passata sul ponte in vani rammarichi mentre la Regina stanca dormiva sotto le stelle esposta all'umidità della brezza; e infine al sorgere del sole la rupe di Gaeta, l'ultimo rifugio destinato all'ultima ruina, dove la dignità regale doveva sottomettersi ai patti di un soldato millantatore!» - Il tradimento era da per tutto come il fumo e l'odore del nitro - seguitava il principe, sempre più turbato da quei ricordi sanguinosi, di tratto in tratto avvivando la parola con un gesto della mano bianca su cui risplendeva il cammeo. - La più terribile giornata dell'assedio fu quella del cinque di febbraio; e la polveriera della batteria Sant'Antonio scoppiò per tradimento.... - Ah, che cosa atroce! - esclamò Violante, scossa da un sussulto, accennando l'atto istintivo di chiudersi gli orecchi con le palme. - Che terrore! - Tu te ne ricordi sempre - le disse il padre, posando su lei gli occhi divenuti più dolci. - Sempre. - Violante era rimasta con noi a Gaeta - soggiunse egli rivolto verso di me. - Aveva appena cinque anni; era il grande amore della Regina. Gli altri erano partiti per Civitavecchia, sul Vulcano, con la contessa di Trapani. Noi stavamo nella casamatta, sotto le batterie del Fronte di mare.... - Io mi ricordo di tutto! - interruppe Violante, mossa da un'animazione subitanea che pareva venirle da quel gran bagliore purpureo diffuso su la sua infanzia lontana. - Di tutto, di tutto mi ricordo, come delle cose accadute ieri! La stanza era isolata da due tramezzi fatti di bandiere cucite insieme. Veggo i colori distintamente: erano bandiere per segnali, azzurre, gialle e rosse. I lumi erano accesi perchè le blinde coprivano le finestre. Quando avvenne lo scoppio, potevano essere le tre o le quattro di sera. Nina Rizzo, la camerista della Regina, era uscita allora allora. Io tenevo fra le mani una tazza di latte che mi avevano mandata le suore dell'Ospedale.... Ella parlava così, a tratti brevi, con la voce un po' sorda, con lo sguardo un po' incantato, rivelando l'una dopo l'altra le particolarità precise, come se le vedesse in una successione di baleni. E le imagini evocate dalla sua parola di veggente si distinguevano per una straordinaria potenza di rilievo sul fondo confuso delle altre imagini. La vergine e il vecchio, commemorando a vicenda la ruina e la strage, parevano abolire le cose vaghe e trascolorite d'intorno, creare una specie di atmosfera fumosa in cui la mia anima respirò per qualche minuto ansiosamente. - Era l'assedio con tutti i suoi orrori, nella città ingombra di soldati di cavalli e di muli, sprovvista di vettovaglie e di danaro, armata d'armi fiacche o inutili, travagliata dal tifo e dalla fellonia. Le piogge torrenziali la riempivano d'una melma nerastra ove i giumenti famelici erranti per le strade stramazzavano e agonizzavano. La grandine di ferro la traforava, la smantellava, l'atterrava, l'incendiava, sempre più spessa e più fragorosa, non interrotta se non dalle brevi tregue pattuite per seppellire i cadaveri già putrefatti. Nelle chiese si celebrava l'ufficio divino e s'invocava la Patrona Invincibile, mentre le pietre si staccavano dalle pareti, cadevano i vetri infranti, giungevano i gemiti dei feriti trasportati nelle barelle. I malati negli Ospedali si sollevavano su i letti quando una bomba penetrava il muro della corsia e nell'attimo dello scoppio credendo di morire gridavano: - Viva il Re! - D'improvviso una polveriera si squarciava scrollando dalle fondamenta tutta la città che rimaneva soffocata dal fumo e dal terrore, mentre nella voragine aperta scomparivano i bastioni, i cannoni, le blinde, le casematte, le case, e cento e cento uomini. Ma, a intervalli, nei giorni di gran sole, una specie di delirio eroico prendeva gli assediati, una specie di ebrezza della morte li spingeva al pericolo su le batterie dove il fuoco era più terribile. In vista del nemico, al suono delle fanfare gli artiglieri cantavano e danzavano freneticamente; se taluno cadeva colpito, crescevano nella gazzarra. Un immenso grido di gioia e d'amore accoglieva l'apparizione della Regina su le spianate ove grandinava il ferro. Ella s'avanzava con un passo audace, nella grazia libera de' suoi diciannove anni, chiusa in un busto fulgido come un corsaletto, sorridendo sotto le piume del suo feltro. Senza battere le ciglia ai sibili delle palle, ella fissava su i soldati il suo sguardo inebriante come l'ondeggiamento delle bandiere; e sotto quello sguardo l'orgoglio pareva allargar le ferite, mentre gli incolumi si rammaricavano di non aver la gloria d'una macchia rossa. Di tratto in tratto, uomini con gli occhi ardenti nel viso annerito, con le vesti ridotte in tritume come dalle mascelle d'un ruminante, coperti di sangue e di polvere, si slanciavano dai cannoni verso di lei chiamandola per nome e le baciavano il lembo della gonna.... - Ah com'era bella e com'era degna del suo trono! - esclamò il principe, che ritrovava i più maschi accenti della sua voce nel celebrare quella prodezza. La sua presenza aveva su i soldati un potere magnetico. Quando ella era là, tutti diventavano leoni. Il ventidue di gennaio fu il più glorioso giorno dell'assedio perchè ella rimase su le batterie fino a notte. Successe una pausa, quasi di raccoglimento, in cui ciascuno di noi parve contemplare la figura ideale dell'eroina su un campo di macerie e di cadaveri. - Erano strane le lacrime ne' suoi occhi! - disse Violante con lentezza, tutt'assorta nella lontana memoria. - All'ultima ora, quando la vidi piangere, rimasi sbigottita e attonita come d'avanti a un fatto impreveduto e quasi incredibile. Baciandomi, ella mi bagnò tutta la faccia. Dopo un intervallo, soggiunse: - Portava al cappello una piccola piuma verde. Soggiunse ancora: - Aveva un grande smeraldo sotto la gola. Poichè ella era seduta al mio fianco, un nuovo turbamento m'invase quando con un atto involontario mi chinai un poco verso di lei e aspirai il profumo che mi parve divenir più forte e dominare la fragranza mèllea dei fiori. Gli esseri e le cose presenti mi ispirarono un'avversione subitanea, mi diedero una specie d'impazienza e di fastidio quasi acre come se in quel punto più mi pesassero e opprimessero. Guardai con un'ostilità istintiva il germano del principe, Ottavio Montaga, seduto a una estremità della tavola, taciturno e un po' sinistro come un uomo mascherato: simbolo d'un divieto oscuro e intrasgredibile. Sentii insorgere l'odio della mia sanità, del mio vigore e del mio desiderio contro la malattia, contro la tristezza, contro il mortale tedio in cui la portentosa creatura si disfaceva senza scampo. Respingendo le inquietudini generate pur dianzi nel mio spirito dalle tre forme diverse nel loro successivo apparire, io credetti d'aver già posta la mia elezione su quella in cui sembravano adunarsi tutti i prestigi e pur la solennità del passato per annobilirla. Anche una volta ella sola agitava tutto il mio essere come quando aveva erto il capo alle strida degli sparvieri. Mi disse il principe: - Non è singolare, Claudio, che Violante conservi di quel tempo una memoria così lucida? Non ti sembra molto singolare? Poi, sorridendo di quel suo primo dolce sorriso: - Maria Sofia non ha mai cessato di prediligerla. Sapendola appassionata degli odori, ogni anno pel natalizio le manda in dono una gran quantità di essenze. E, da che siamo qui, non ha mancato una volta! Volgendosi alla figlia teneramente: - Oramai tu non potresti più farne a meno; è vero? E a me, con un'ombra di tristezza: - Ella ne vive! E tu la vedi, Claudio, come s'è fatta bianca. Mi parve che Anatolia bisbigliasse: - Ella ne muore. Quando ci levammo dalla mensa, Anatolia ci propose di discendere nel giardino. - Andiamo a prendere ancóra un po' di sole! - ella invitò, sollevando la mano verso un fascio di raggi che penetrava pel più alto vetro d'una finestra non coperto dalla tendina scolorita. - Chi vuol venire? La sua mano s'illuminò nel gesto, s'indorò fino al polso; e i raggi passarono fra le sue dita come crini docili. - Veniamo tutti - io risposi. Don Ottavio chiese licenza e si ritrasse (il suo aspetto tra noi era quel d'un intruso); ma il principe mise il suo braccio sotto il braccio di Anatolia, come già Antonello aveva fatto nella scalea, e disse: - Io vi accompagnerò fin giù nell'atrio. Passando per la vastissima sala di udienza, ridotta a una vuota anticamera, notai una vecchia portantina ch'era fornita delle due stanghe: quasi avesse allora allora deposta la dama o fosse in assetto per riceverla. - Chi va in portantina? - domandai, soffermandomi. - Nessuno di noi - rispose Anatolia, dopo un attimo di esitazione, mentre su tutti i volti passava l'ombra di un turbamento. - È del tempo di Carlo III - disse il principe, dissimulando col sorriso il suo pensiero triste. - Appartenne alla duchessa di Cublana Donna Raimondetta Montaga, che fu la più bella dama della Corte e fu celebrata come la più grande bellezza del Regno. - È di stile eccellente - io riconobbi, accostandomi, attratto da quella vecchia cosa che non anche pareva ben morta, a cui la memoria di Donna Raimondetta conferiva anzi un pregio e una grazia singolari e quasi una reviviscenza fittizia sotto il mio sguardo. - È una squisita opera d'arte, e conservata a meraviglia. Ma io sentii che un'inquietudine strana occupava i miei ospiti intorno a me, e che la causa di quel malessere partiva dall'oggetto presente. E tanto più forte allora, per virtù del mistero, sentii vivere nel legno prezioso la vita delle mie imaginazioni. - L'anima di Donna Raimondetta abita qui dentro, forse - io dissi con un'aria leggera, non potendo resistere alla voglia di aprire lo sportello. - Non potrebbe avere un ricettacolo più elegante. Vediamo. Come apersi, un odore sottile mi venne alle narici; e per meglio aspirarlo avanzai il capo nell'interno. - Che profumo! - esclamai, deliziato da quella sensazione impreveduta. - È il profumo della duchessa di Cublana? E per qualche attimo tenni il mio spirito sospeso nella molle atmosfera creata dal fascino della dama antica, imaginando una piccola bocca rotonda come una fragola, un'alta capellatura carica di cipria e una veste di broccatello gonfiata dal guardinfante. La portantina odorava come un cofano di nozze, dentro tappezzata d'un velluto verde come la foglia del salice e ornata d'uno specchietto ovale per ciascun fianco, fuori tutta quanta dorata e dipinta con gusto sopraffine, arricchita di delicatissimi intagli nelle cornici e nelle commessure, resa più armonica e più dolce alla vista dal suo velo secolare: amabile opera d'una fantasia leggiadra e d'una mano sapiente. - O forse siete voi, Donna Violante, - soggiunsi - che avete vuotato su questo velluto così tenero una delle vostre fiale, per omaggio all'ava famosa? - No, non io - fece ella, quasi con indifferenza, come rioccupata dal tedio consueto, come ridivenuta estranea. - Andiamo, dunque - sollecitò Anatolia traendo il padre ch'ella teneva ancóra al suo braccio. - In questa sala c'è sempre un gran freddo. - Andiamo - ripetè Antonello rabbrividendo. Si udiva già dal più alto gradino il romore dell'acqua, roco prima poi sempre più chiaro e più forte. - La fontana è riaperta? - fece il principe. - L'abbiamo riaperta dianzi - disse Anatolia - in onore dell'ospite. - Hai notato, Claudio, nel cortile il gioco degli echi? - mi chiese Don Luzio. - È straordinario. - Veramente straordinario - io risposi. - È un effetto di sonorità prodigioso. Pare l'artificio di un musico. Credo che un armonista attento troverebbe qui il segreto di accordi e di dissonanze sconosciuti. Ecco una scuola incomparabile per un orecchio delicato. Non è vero, donna Violante? Voi siete per la fontana, contro Antonello. - Sì - ella disse con semplicità - io amo e comprendo l'acqua. - Laudato si, mi Signore, per sor acqua.... Vi ricordate, Donna Massimilla, del Cantico di San Francesco? - Certo - rispose con un sorriso tenue la fidanzata di Gesù, arrossendo. - Io sono una clarissa. Il padre l'accarezzò malinconicamente con lo sguardo. - Suor Acqua! - la chiamò Anatolia, sfiorandole con le dita la benda liscia dei capelli che le scendeva su la tempia. - Prendi questo nome. - Sarebbe superbia - fece la clarissa, con una umiltà ridente. Ella mi rimise nella memoria, con una leggera variante, la sentenza della Beata: Symphonialis est aqua. Eravamo tutti là, presso la fontana sonora. Ogni bocca dava le sue note con una canna di vetro simile a una tibia ricurva. La conca di sotto era già colma e i quattro cavalli marini vi stavano sommersi fino al ventre. - Il disegno è dell'Algardi bolognese, - disse il principe - dell'architetto d'Innocenzo X, ma le sculture furono eseguite dal napoletano Domenico Guidi, da quello stesso che eseguì in gran parte l'alto rilievo d'Attila a San Pietro. Come Violante erasi di nuovo appressata al margine della conca, io guardavo la sua imagine riflessa nella sfera liquida ove un tremolio continuo scomponeva i lineamenti fra le zampe dei cavalli. - Un episodio tragico è legato a questa fontana, - soggiunse il principe - un episodio che fu poi il motivo di qualche credenza superstiziosa. Non lo conosci? - Non lo conosco - risposi. - Ma raccontatemelo, se non vi dispiace. E guardai Antonello, ripensando l'anima perduta che lo tormentava e lo spaventava di notte. Anch'egli ora teneva gli occhi intenti all'imagine di Violante tremula in fondo all'acqua. - Qui, in questo bacino, morì annegata Pantea Montaga, - cominciò Don Luzio - al tempo del vicerè Pietro d'Aragona.... Ma s'interruppe. - Ti racconterò un'altra volta. Compresi ch'egli aveva ritegno a risuscitare quella memoria in presenza delle figlie; e non volli insistere. Ma, poco dopo, nell'atrio esterno, passeggiando solo al mio braccio con lentezza, egli riprese il racconto; mentre d'intorno il sole splendeva su l'ordine dei balaustri donde le alte statue bianche delle Stagioni contemplavano la valle fulva del Saurgo. Era un dramma di passione e di morte, intimo e segreto, ben degno della virtuosa chiostra lapidea che ne aveva compressa e poi esaltata la violenza in rapida vicenda. Mi significava il potere esercitato dal genio dei luoghi su l'anima affine, per cui in questa ogni verace sentimento doveva concentrarsi fino all'estrema intensità comportabile dalla natura umana per esprimer quindi tutta la sua forza in un atto definitivo e di conseguenza certa. Ascoltando l'imperfetto racconto del principe, io ricomponevo interiormente l'ora di vita essenziale che aveva prodotto la morte di Pantea; e il delitto notturno assumeva ai miei occhi una bellezza indicatrice di cose profonde. Profonda, in vero, doveva essere la volontà di quell'Umbelino che, acceso d'implacabile amore verso la sorella inconsapevole ma deliberato a rimaner nella sua colpa solo, meditò di ucciderla per dividere dall'anima quella carne che l'aveva infiammato di desiderio così terribilmente e per poter solo quella contaminare di tutte le carezze. «Egli dovette trarre dal suo segreto meravigliosi brividi» io pensava, considerandone il volto magro e olivastro che mi fingeva la mia imaginazione. Poichè un ignoto sortilegio gli aveva infuso nel sangue il fuoco impuro, egli non riconobbe per oggetto della sua concupiscenza se non il corporale involucro che racchiudeva l'anima inviolabile; e seppe quindi con la forza del suo pensiero distintamente separar l'uno dall'altra e contenere in sè a un tempo i due amori: il profano e il sacro. Qual doveva essere il brivido del suo orrore quando, negli attimi in cui più forte lo divorava la febbre alimentata dagli effluvii del corpo presente, udiva la cara anima della sorella esalar parole soavi da quelle stesse labbra che in sogno egli copriva di lussuriosi baci! In quali vortici spaventevoli la sua vita interiore doveva turbinare senza mai tregua, moltiplicata dalla solitudine e addensata dalla constrizione! Alfine, poiché sentiva aggravarsi il giogo della fatalità che gli rendeva necessario il delitto, egli meditò di vuotare la bellezza funesta di Pantea, risolse di ridurla a spoglia insensibile per mezzo della morte. Quanti segni di pietà e di dolore egli prodigò in silenzio alla cara anima che doveva involarsi innocente per lasciargli nelle braccia la salma agognata! Egli, certo, le diceva cose ineffabili allorché l'accompagnava alla cappella per la preghiera mattutina. - O Pantea, nulla in terra è più dolce della tua preghiera: la rugiada è meno dolce - le diceva perché ella più lungamente e più fervidamente pregasse. Perché ella si apparecchiasse a trapassare, le diceva: - O Pantea, come sei beata! Il luogo della tua anima è il grembo di Nostro Signore Gesù Cristo. - Ma in silenzio le diceva cose ineffabili, ch'ella non poteva intendere. E in una sera d'estate, piena di prestigi fatali, scoccò l'ora della morte. Tutto era inverisimile e favorevole come in un sogno. Entrambi stavano presso la fontana eloquente e rinfrescavano le loro mani nell'umida ombra, taciturni. Una febbre d'inferno ardeva nei polsi di Umbelino mentre egli teneva gli occhi fissi alla imagine di Pantea rispecchiata dall'acqua sotto il chiarore delle stelle. Come in un sogno le sue mani, con la stessa facilità con cui avrebber vinto lo stelo di un giglio, quasi magicamente, piegarono la persona di Pantea verso l'imagine profonda finché l'una si confuse nell'altra e la fontana tenne un candido cadavere... Il principe Luzio prese commiato da me dicendomi: - Io spero che da oggi tu voglia aver questa casa per la tua casa. E sempre, quando tu verrai, sarai il benvenuto, mio caro figliuolo. Non ti far troppo desiderare, dunque. Mi dava tanta tristezza quel suo rientrar solo nel palazzo desolato, che io l'accompagnai per un tratto parlandogli affettuosamente. Ci soffermammo innanzi alla fontana; ed egli fece un gesto vago verso la conca, ond'io vidi nella limpidità glaciale la funesta bellezza di Pantea e le bianche mani concave a fior d'acqua come due petali di magnolia e la molle capellatura fluttuante sotto le zampe dei cavalli. - Una favola corse negli anni che seguirono - disse il principe sorridendo. - Nelle notti degli interlunii l'anima di Pantea cantava in cima allo zampillo e quella di Umbelino si disperava dentro le gole delle bestie di pietra, fino all'aurora. L'ansia della primavera ci saliva alla faccia, stando noi inclinati su i balaustri verso il giardino in pendio. Ci avvolgeva una specie di aura vibrante con la celerità di un polso febrile; e la sensazione era così continuamente grave che intorpidiva i nervi. Le pupille si fissavano e le palpebre si abbassavano, come in un principio di sopore. Io sentivo la mia anima carica come una nube. Disse Anatolia sul nostro silenzio concorde: - Passa la Felicità. Ella rivelava, con quella inattesa parola, a noi medesimi il segreto dell'angoscia che era entro di noi; ed esprimeva l'essenza dell'infinita malinconia diffusa per la terra in punto di rinnovellare. - Passa la Felicità! «Quali mani potrebbero arrestarla?» io mi domandai subitamente, in una cieca agitazione del mio bisogno d'amore, in una insurrezione confusa de' miei istinti più profondi. Le tre sorelle, poggiati i gomiti su la sponda di pietra, tenevano le mani in fuori nude, senza anelli, immerse nel sole come in un tepido bagno aurino: Massimilla, con le dita insieme tessute; Anatolia, con l'una palma presa nell'altra in croce per modo che i due pollici soprastavano; Violante, premendo alcune mammole già languide tolte alla sua cintura e lasciandole poi cadere nello spazio. «Quali mani potrebbero arrestarla?» Quelle di Anatolia apparivano le più forti e le più sensitive. Si disegnavano fermamente sotto la pelle i muscoli e i tendini che invigorivano i pollici gemmati d'un'unghia rosea, distinta alla radice dalla lunula quasi bianca, in guisa di un onice a due falde. - Non mi avevano esse già comunicato nel primo contatto un senso di forza generosa e di bontà efficace? Non avevo io già creduto di sentire nel cavo della palma un calore vivifico? Ma quelle di Massimilla sembravano quasi increate, come le forme delle apparizioni, tanto erano tenui; e tanto erano candide che il raggio d'oro non riusciva a indorarle; e tanto note m'erano che io rivedevo nella piena luce diurna la tenebra dell'absida umbra dove le avevo vedute per la prima volta su la pala dell'altare, sole superstiti di un'imagine riassorbita dal mistero e pur atte da sole ad incantare e ad accarezzare anime. Or esse esprimevano con l'intreccio delle dita tessute il vincolo della schiavitù volontaria. - Eccomi a te, avvinta d'un legame più forte di qualunque catena. Non aprirò le braccia se non quando ti piacerà di sciogliermi. Io non posso e non voglio se non adorare e obbedire, obbedire e adorare - confessava per quei segni la devota al suo ideal signore. E io imaginai le sue mani disciolte e dalle palme loro generarsi lunghe zone di silenzio vivente, in quella guisa che dalle palme degli angeli effigiati in alto e in basso delle ancóne si partono le liste volubili dei cartigli recanti qualche versetto e chiudono l'istoria entro il senso mistico delle parole scritte. «Così, o Adorante, nei cerchi del tuo vivente silenzio d'amore potresti includere il mio spirito meditabondo! E io sarei infedele alle solitudini della terra: ai monti solenni, ai boschi musicali, ai fiumi pacifici, e pur ai cieli stellati; poiché nessuno spettacolo della terra eleva il genio dell'uomo quanto la presenza di una bella anima sottomessa. Questa dà alle mura della stanza segreta una vastità illimitata, come la lampada votiva aumenta la grandezza della notte nel tempio. Per ciò io ti vorrei nella mia casa, o dolce schiava. Colui che medita circondato d'un'adorazione silenziosa, sente la divinità del suo pensiero e crea come un dio.» Ma le mani sublimi di Violante, esprimendo dai teneri fiori la stilla essenziale e lasciandoli cader pesti al suolo, compievano un atto che, come simbolo, rispondeva perfettamente al carattere del mio stile: - estraevano da una cosa fin l'ultimo sentore di vita, cioè le prendevano tutto quel che essa poteva dare, lasciandola esausta. Tale non era uno tra i più gravi offici della mia arte di vivere? Violante dunque m'appariva come uno strumento divino e incomparabile della mia arte. «La sua alleanza m'è necessaria per conoscere e per esaurire le innumerevoli cose occultate nelle profondità dei sensi umani, delle quali la sempiterna lussuria è unica rivelatrice. Chiude la carne tangibile infiniti misteri che solo il contatto di un'altra carne può rivelare a chi sia dotato dalla Natura per comprenderli e per celebrarli religiosamente. E il corpo di costei non ha la santità e la magnificenza di un tempio? Non promette la sua bellezza alla mia sensualità le più alte iniziazioni?» Così, come già nella prima salita, io attraevo in me le tre forme integrali che offerivano a tutti i poteri del mio essere la gioia del manifestarsi e dell'appagarsi totalmente in una compiuta armonia. L'una - nel mio sogno - con la pura fronte raggiante di presagi vegliava sul figlio del mio sangue e della mia anima; e l'altra, come la piráusta nella fornace del metallurgo, viveva nell'intimo fuoco de' miei pensieri; e l'altra mi richiamava al culto religioso del corpo e conveniva meco in segrete cerimonie per insegnarmi a rivivere la vita degli antichi iddii. Tutte sembravano nate a servire le mie volontà di perfezione in terra. E il doverle disgiungere l'una dall'altra mi offendeva come un disordine, mi irritava come un sopruso del pregiudizio e del costume. «Perchè dunque non potrei condurle alla mia casa in un medesimo giorno e ornare della triplice grazia la mia solitudine? Il mio amore e la mia arte saprebbero creare intorno a ciascuna un diverso incantamento e construire per ciascuna un trono e a ciascuna offerire lo scettro d'un ideal regno popolato di finzioni in cui ella ritroverebbe trasfigurata per aspetti molteplici la parte di sé non mortale. E, poiché la brevità è il giustissimo attributo del sogno superbo e della vita bella, il mio amore e la mia arte anche saprebbero comporre alle beatrici (ma non a te, o Anatolia, lungamente destinata a vegliare!) una morte armoniosa nell'ora opportuna....» Piovevano senza tregua su le mani virginee questi miei pensieri accesi come da un lene delirio in quella precoce caldezza del sole, quando Violante lasciò cadere l'ultimo fiore premuto e si sporse verso le cime dei lunghissimi tralci che dal ripiano sottoposto salivano fino ai balaustri e vi si avvolgevano. Riuscì ella a spezzare un rametto e ne esaminò le fibre interne per vedere se fossero già penetrate dalla linfa primaverile. - Dormono ancóra - ella disse. Noi eravamo dunque chini su l'estremo sonno, già trasparente, di quelle spoglie squallide in cui stava per compiersi uno tra i più grandi miracoli terrestri, evocato da una parola. - Vedrete, fra qualche mese - mi disse Anatolia. - Tutto sarà coperto da un manto verde, tutte le pergole saranno ombrose. Non erano le madri dell'uva, ma erano certe viti pampinifere dagli innumerevoli sermenti volubili che si distendevano su per la vasta muraglia, come giù per le pergole delle scalee, a similitudine d'un tessuto reticolare. Esse non avevano aspetto di vegetali, ma di funicelle consunte, macerate dalla pioggia, disseccate dal sole, fragili in vista come le tele dei ragni. E pure l'imminenza della metamorfosi le rendeva mistiche come i maggiori tronchi delle foreste montane. Miriadi di fronde vive stavano per irrompere dalle fibre di quel cordame inerte, miracolosamente. - In autunno - mi disse Violante - tutto si fa rosso, d'un rosso splendidissimo; e in certi giorni d'ottobre, al sole, le muraglie e le scalee sembrano parate di porpora. In quel tempo, veramente, il giardino ha la sua ora di bellezza. Se voi sarete qui, vedrete.... - Non sarà qui - interruppe Antonello, scotendo il capo. - Perché tu ripeti sempre questo? - io gli chiesi, quasi per un rimprovero dolce. - Che sai? - Nessuno sa mai nulla - mormorò Oddo, con la sua voce sorda che io non distinsi dalla voce fraterna se non pel moto delle labbra. - Chi può dire quel che accadrà di noi da oggi all'autunno? Soltanto Massimilla è sicura: ha trovato il suo rifugio. Forse una minima stilla di amarezza alterava le ultime parole. - Massimilla va a pregare per noi - disse Anatolia gravemente. La monacanda abbassò la testa verso le sue mani congiunte. E per un intervallo noi tacemmo, sotto un'onda di cose indistinte ma pur tuttavia imperiose. La visione allucinante della porpora autunnale faceva impallidire ai miei occhi quel limpido pomeriggio della prima primavera, mentre discendevamo giù per le scalee, dove qualche ora innanzi le tre principesse mi erano apparse come nell'inizio d'una favola uscenti con un sorriso novello da una notte d'immemorabili affanni. Tanto già mi sembrava lontana quell'ora mattutina quanto prossimo quell'autunno a cui - secondo un presentimento oscuro - dovevano condurmi le vicissitudini d'un fulmineo fato. E, se io imaginavo intorno ai nudi tralci il fogliame purpureo, vedevo su i volti delle tre sorelle cadere un'ombra di lutto cupa. Un'altra volta il sentimento della morte appassionò ed inalzò la mia anima per modo che tutte le apparenze vi si riflettevano con trasfigurazioni di poesia. E nello splendore dell'aria primaverile quelle creature frali mi sembrarono «maravigliosamente tristi» come le donne nel sogno della Vita nuova, che Massimilla m'aveva richiamato alla memoria fra i mandorli succisi e gli antichi specchi. E mi sembrò d'esser tutto compreso dall'ardente spirito che in quel libello infiamma la pagina ove Dante giovine mostra com'egli sapesse agitar dal profondo la sua anima ed esaltarla al sommo dell'ebrietà dolorosa imaginando morta Beatrice e contemplandone la faccia a traverso il velo funerale. «Sospirando forte, fra me medesimo dicea: Di necessità conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia.... E paventando assai, immaginai alcuno amico che mi venisse a dire: Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo.... Allora mi parea che il cuore, ov'era tanto amore, mi dicesse: Vero è che morta giace la nostra donna.... E fu sì forte la errante fantasia che mi mostrò questa donna morta....». Non mi veniva da una simile imaginazione l'émpito delle ineffabili bellezze interiori? Una nobiltà sovrana emanava da ogni atto delle vergini moriture e irradiava le cose per mezzo a cui elle passavano. E forse mai più le vidi in tanta luce e in tanta ombra. Quando fummo a piè delle scalee, in un ripiano circondato dalle verdi rovine d'un portico di bossi, Anatolia si soffermò chiedendomi: - Volete rivedere tutto il giardino? Potreste forse ritrovare qualche memoria. Quasi a dichiarar la sua signoria, Violante disse: - Giacchè voi amate la musica dell'acqua, io vi condurrò alla visita delle mie sette fontane. E Massimilla con la sua timida gentilezza: - In compenso dei mandorli, io vi mostrerò un biancospino fiorito questa notte, laggiù. Mi pareva che parlassero di loro intime cose e, come la vergine di Fontebranda, intendessero: «Noi siamo uno giardino». Non potendo esprimere il mio sentimento, io dissi parole vane. - Conducetemi dunque - io dissi. - Certo ritroverò qualche memoria: almeno delle mie prime letture, che furono racconti di fate.... - Povere fate senza bacchetta! - fece Oddo, prendendo la mano di Anatolia con un gesto carezzevole. E negli occhi di quelle sorridevano tutte le disperazioni. Allora Violante ci condusse come per un laberinto. Andavamo tra il verde perenne: tra i bossi, tra i lauri e tra i mirti antichissimi, la cui vecchiezza selvaggia era immemore della sofferta disciplina. Appena qua e là rimaneva qualche vestigio delle simmetriche forme trattate un tempo dalle cesoie dei giardinieri; e io ero vigile a ravvisare nelle mute piante l'umanità di quelle sembianze non anche interamente scomparse, con una malinconia forse non dissimile a quella di colui che ricerca su i marmi dei sepolcri l'effigie consunta dei morti obliati. Un odore dolciamaro accompagnava i nostri passi; e a quando a quando taluno di noi, come per una volontà di riallacciare una trama disfatta, ricomponeva un ricordo della puerizia lontana. Ed ecco, risorgeva puramente la larva di mia madre; e pareva nutrirsi di tutte le cose che i nostri cuori esalavano nei silenzii intermessi, non distaccandosi ella dal fianco di Anatolia per mostrarmi la sua elezione. E un odore dolciamaro accompagnava la nostra malinconia. Mi chiese Violante arrestandosi, quasi con l'aspetto e con l'accento con cui mi aveva parlato alla finestra: - Udite? - Ora siamo nel vostro dominio - io le dissi - perché voi siete la regina delle fontane.... S'udiva il canto roco dei getti venire a traverso un'alta siepe di mirti, mentre noi eravamo in un piccolo prato cosparso di giunchiglie e custodito da una statua di Pane interamente verde di musco. Una deliziosa mollezza pareva salirmi per le vene dall'erba molle che i miei piedi premevano; e ancora una volta l'improvvisa gioia della vita mi dilatò il respiro. A un tratto, la presenza dei due fratelli m'increbbe e la misericordia per loro mi divenne grave. «Ah come io saprei turbare nel profondo le vostre anime chiuse!» pensai guardando le tre prigioniere. «Come saprei esasperare fino all'angoscia le inquietudini che sono in voi!» E imaginai la voluttà di gustare quelle anime nuove, piene di un succo essenziale, rarissimi frutti maturati con lentezza nel Giardino del conoscimento di sé e intatti ancóra per offerirsi alla mia brama. E più grande era il rammarico perché sapevo di non poter ricomporre in séguito quel singolare incanto che non si forma se non dalla novità delle prime comunicazioni tra gli esseri chiamati a congiungere i loro destini: singolare incanto e breve, misto di meraviglia e di attesa e di presentimento e di speranza e di mille cose non definibili, partecipi della natura de' sogni, vane eppur insórte dai più sacri abissi della vita. Tutto si faceva ricco e soave nella trasparenza dell'ambra aerea; e da per tutto fiorivano idee di bellezza che chiedevano d'esser raccolte; e le più nobili fiorivano ai piedi delle principesse desolate, ove io imaginai me medesimo chino a raccoglierle. E imaginai la voluttà di accarezzare e d'irritare quelle anime vagando in quel segreto claustro su cui i fantasmi delle antiche Stagioni parevano tessere un velo di poesia figurandovi per entro, con fili appena visibili, volti strani di creature sconosciute ridenti e piangenti nelle vicende della gioia e del dolore. Non cantava in ognuna di quelle fontane una Pantea, candida vittima di una passione scellerata e sublime? Certo un sentimento straordinario mi penetrò quando Violante mi condusse oltre i mirti, nella lunga zona compresa tra la siepe degli arbusti e il muro orientale. Quivi regnava quello spirito misterioso che occupa i luoghi remoti ov'è fama che un tempo convenissero a colloquio amanti celebrati per lo splendore tragico dei loro destini. Le statue, le colonne, i tronchi avevano l'aspetto delle cose che furono testimonie e complici d'una grande ebrezza umana e ne perpetuarono la memoria per gli anni. Le profonde ingiurie del Tempo edace e dei Segni inclementi conferivano alle forme della pietra quelle espressioni e quasi direi quella eloquenza che sole hanno le ruine. Ardui pensieri ne sorgevano, espressi dalle linee interrotte. E imaginai la voluttà di confessar quivi il mio sogno magnifico alle tre beatrici che sole potevano trasformarlo in armonia vivente; imaginai la voluttà di parlare d'amore in quel medesimo luogo ove adunavasi tanta virtù di simboli per esaltar le anime oltre le consuete angustie umane e dilatarle in un supremo cielo di bellezza. Andavamo pianamente, a quando a quando soffermandoci, proferendo parole che dissimulavano l'inquietudine da cui eravamo agitati; e Oddo e Antonello si mostravano stanchi, rimanevano indietro di qualche passo, taciturni. E io credevo di avere dietro di me le ombre della malattia e della morte. Il mio fervore era caduto. Io sentivo quanto fosse crudo il contrasto fra le mie animazioni impetuose e quelle necessità miserevoli che rimanevano immutabili al mio fianco, intorno a me, ovunque nel grande claustro pieno di cose obliate o estinte. Io sentivo che ciascuna di quelle creature già tante volte in un'ora illuminate dal mio intelletto e trasfigurate dal mio desiderio, conservava intatto il suo segreto e che il linguaggio delle sue apparenze non poteva rivelarmelo. Guardandole, io le vidi l'una dall'altra discoste, l'una dall'altra estranee, ciascuna con un pensiero ignoto tra ciglio e ciglio, ciascuna con un sentimento ignoto nell'intimo cuore. - Io ero per allontanarmi, ero per ritornare nella mia solitudine: la nostra giornata era presso alla fine. - Quali cose nuove quella prima comunicazione aveva indótto nelle loro anime attediate dalla lunga consuetudine d'una tristezza non più illusa forse neppur da un'ultima speranza nell'evento impreveduto? In quali aspetti ero io apparso a ciascuna? Il loro bisogno di amore e di felicità s'era proteso verso di me con un impeto irrefrenabile, o una incredulità sfiduciata come quella dei due fratelli le diffidava? Esse camminavano al mio fianco pensose; e, pur quando parlavano, sembravano così profondamente assorte che più d'una volta io fui sul punto di chiedere: - A che pensate? - E nasceva in me quasi una volontà di violenza e di estorsione, d'avanti a quel segreto ch'esse stringevano; e mi salivano alle labbra quelle parole temerarie che possono d'improvviso aprire un cuor chiuso e sorprenderne la pena più nascosta o sforzarlo a confessarsi. Ma nel tempo medesimo una tenerezza pietosa mi piegava verso di loro quasi a chieder perdono d'un male ch'esse patissero da me in quel punto e d'un più aspro male che da me in futuro dovessero patire. La necessità della scelta mi si presentava come una prova crudele, cagione di dolori e di sacrifizii inevitabili. - Non sentivo io un'ansia veemente riempire le pause del nostro dialogo inutile? - Oh quando verrà l'estate! - sospirava Violante, alzando gli occhi verso i larghi ombrelli dei pini. - D'estate, io passo qui tutte le ore del giorno, sola, con le mie fontane. Ed è il tempo delle tuberose! Pini giganteschi, dai fusti diritti e rotondi come le antenne delle galere, ordinati a distanze eguali, sorgevano lungo il muro del claustro e lo proteggevano con le loro cupole opache. Tra fusto e fusto, come in un intercolonnio, s'incavavano nel muro le nicchie abitate dalle statue ignude o avvolte nei pepli in attitudini calme, recanti le visioni del Passato nella loro cecità divina. A distanze eguali, le sette fontane sporgevano in forma di tempietti: composta ciascuna d'un'ampia tazza in cui si miravano deità sedenti su i margini e poggiate all'urna dell'acqua, nello spazio compreso fra due coppie di colonne che sorreggevano un frontone ov'era scolpito un distico. L'alta siepe dei mirti levavasi di contro tutta verde, non interrotta se non dalle bianche erme cogitabonde. E il terreno umido era quasi interamente coperto dai muschi come da un feltro, che rendeva silenzioso il nostro passaggio aumentando la dolcezza del mistero. - Riuscite a leggere quei versi? - fece Violante, vedendomi intento a scoprire le lettere incise nella pietra, cancellate quà e là dalle gromme e dalle fenditure. - Io sapevo una volta quel che dicevano. Dicevano: «Affrettatevi, affrettatevi! Intrecciate in ghirlande le rose belle per cingerne le ore che passano.» Praecipitate moras, volvcres cingatis vt horas Era, addolcito di rime, l'antico ammonimento che nei secoli aveva incitato gli uomini ai piaceri della vita breve, aveva infiammato i baci su le bocche degli amanti e moltiplicato su le mense le coppe del vino. Era l'antica melodia voluttuosa, modulata su la nova siringa che un monaco industre aveva composta in forma dell'ala d'una colomba con le canne ineguali recise nell'orto abbandonato di Pane ma conteste insieme con la cera dei torchietti votivi e con il lino d'una tovaglia d'altare logora. «La fontana brilla e risuona; e ti dice nel suo splendore: Godi!, e nel suo murmure ti dice: Ama!» Fons lvcet, plavde, eloquitvr fons lvmine: Gavde. Un ambiguo incantesimo diffondevano nel mio spirito gli echi della rima leonina a cui le acque facevano la glosa interminabile. Io sentivo in quelli echi l'accento velato della malinconia che dona al piacere un'indefinita grazia e turbandolo pur lo rende più profondo. Non meno eran molli e tristi quivi le giovinezze divine che distendevano sui margini le nude membra ondulate a similitudine dello specchio in cui si miravano da sì lungo tempo: - Salmaci forse, agognanti alla perfezione d'un congiungimento ancora ignoto agli uomini e agli iddii? o Bibli forse, intente a comprimere nel virgineo petto il fuoco del desiderio incestuoso? o Aretuse pieganti come salci leni sotto la violenza d'un amor protervo repulso in vano? «Piangete qui, o amanti che venite a dissetarvi! Troppo è dolce quest'acqua. Tempratela col sale delle vostre lacrime.» Flete hic potantes, nimis est aqva dvlcis, amantes. Così la dolce fontana, invidiando il sapore del pianto, indicava ai gaudiosi l'arte sottile di gustar qualche amarezza nella piena felicità. «Convien mescere alle rose qualche roseo fiore dell'atro elleboro, quasi indistinto nella ghirlanda, affinchè la fronte redimita a quando a quando s'inclini.» Pareva che di grado in grado, per quella lunga via di amore, la voluttà divenisse più raccolta, più sapiente e più appassionata. I liquidi specchi invitavano gli amanti a reclinar le fronti gravi di sogno e a contemplare le proprie imagini affinchè, giunti infine a non vedere in quelle se non le sembianze d'ignoti esseri insorte alla luce da un mondo inaccessibile, potessero meglio sentire quel ch'eravi d'indicibilmente estraneo e lontano nelle vite loro. «Inclinatevi a specchiarvi affinché i vostri baci sieno addoppiati dall'imagine.» Oscvla ivcvnda vt dvplicentvr imagine in vnda In quel semplice atto non era il segno rivelatore d'una cosa recondita? I due amanti chini a riguardar la loro carezza rispecchiata significavano inconsapevolmente la potenza mistica della voluttà; che è quella di espellere per qualche attimo l'uomo sconosciuto che noi portiamo in noi medesimi e di farcelo sentire lontano ed estraneo come un fantasma. - Non forse nell'oscurità di un tal sentimento si accresce il delirio e si produce il terrore dei lussuriosi che negli specchi delle alcove profonde mirano le loro mutue carezze ripetute da figure che sono a lor somiglianza e che pur sembrano indefinitamente dissimili e remote in un silenzio soprannaturale? Avendo una confusa coscienza della straordinaria alienazione che avviene in loro, credono essi trovarne un simbolo illuminante in quelle imagini esterne e dall'analogia sono indótti a non più considerarle come parvenze visuali ma come forme di vita inesplicabili e infine come aspetti di morte vera quando i corpi esausti divengono immobili sul lenzuolo bianco e il sudore si agghiaccia nelle reni e le pupille si contraggono sotto il peso delle palpebre.... Tal visione mi creavano le rime dell'ultima fontana canora su cui inclinavasi il volto di Violante, scendendo l'ombra dei pini lenta come un velario ceruleo. «Qui la Voluttà e la Morte si mirarono congiunte; e i loro due volti facevano un volto solo.» Spectarvnt nvptas hic se Mors atqve Volvptas. Come il sole si velò al passaggio d'una nuvola bianca e molle, l'aria parve addolcirsi ancora più, parve assumere quasi il sapore d'un latte diafano in cui fosse distemperato un aroma. E io portavo nell'orecchio la cadenza delle rime latine mentre andavamo a traverso pratelli recinti, gialleggianti di giunchiglie, ov'era facile imaginare gli episodii d'una festa pastorale all'ombra di padiglioni inghirlandati. Sul piedestallo di una ninfa priva d'ambo le braccia era scolpita l'impresa degli Arcadi: la siringa di sette canne entro un serto d'alloro. - Non eravate voi qui stamane? - dissi a Violante, riconoscendo nella vicinanza l'arco di bosso ove prima ella m'era apparsa. Ella sorrise; e mi sembrò che le sue gote si colorassero in sommo come per un bagliore fuggevole. Poche ore erano trascorse; e io mi stupii d'avere smarrita la nozione esatta del tempo. Quel breve intervallo m'appariva tutto pieno di avvenimenti confusi che gli davano nella mia coscienza una durata illusoria, senza limite certo. Non potevo ancora misurare la gravità della vita che avevo vissuta in quel claustro dal punto in cui il mio piede s'era posato su la soglia; ma sentivo che una cosa oscura, di conseguenze incalcolabili, già stava per risolversi in me, fuor d'ogni mio volere; e pensavo che il mio presentimento mattutino su la via solitaria non era stato fallace. - Perchè non ci sediamo un poco? - chiese Antonello, quasi supplichevole. - Non siete ancora stanchi? - Sediamoci - assentì Anatolia, con la sua dolce condiscendenza abituale. - Anch'io sono un poco stanca. È forse l'effetto della primavera.... Che odore di mammole! - Ma il vostro biancospino? - esclamai volgendomi a Massimilla, per mostrarle che non avevo dimenticata la sua offerta. - È ancora lontano - ella rispose. - Dove? - Laggiù. - Massimilla ha i suoi nascondigli - fece Anatolia ridendo. - Quando si nasconde, nessuno la ritrova. - Come l'ermellino - io aggiunsi. - Poi - ella continuò scherzevole - di tanto in tanto fa un'allusione misteriosa a qualche piccola meraviglia conosciuta da lei sola, ma con prudenza, conservando sempre il segreto, senza conceder mai nulla alla nostra curiosità. Voi oggi, pel biancospino, siete l'oggetto d'uno speciale favore.... La monacanda teneva gli occhi bassi, ma il riso le brillava nei cigli illuminandole tutta la faccia. - Un giorno - continuò la buona sorella, che pareva contenta di risvegliare quel raggio inconsueto - un giorno vi racconterò la storia del riccio e dei quattro ricciotti ciechi.... Massimilla ruppe allora in un ridere così giovenile e così limpido, vestendosi d'una freschezza così impreveduta, che io ne fui attonito come davanti a un prodigio di grazia. - Ah, non date ascolto a Anatolia! - ella esclamò senza guardarmi. - Vuol burlarsi di me. - La storia del riccio e dei quattro ricciotti ciechi! - io dissi, bevendo con delizia a quella vena d'ilarità repentina che attraversava la nostra malinconia. - Ma voi siete dunque un esemplare di perfezione francescana. Bisogna aggiungere un fioretto ai Fioretti: «Come Suor Acqua dimesticò il riccio salvatico e fecegli il nido acciocchè moltiplicasse, secondo i comandamenti del nostro Creatore.» Raccontate, raccontate! La clarissa rideva con la sua Anatolia, e quel tenue spirito di gioia si comunicava anche a Violante e ai due fratelli; e per la prima volta, in quel giorno, noi riconoscevamo la nostra giovinezza. Chi potrà mai dire come sia dolce e strano il dischiudersi inaspettato del riso nelle labbra e nelle pupille dei dolenti? Persisteva nella mia anima il primo stupore, e sembrava che coprisse d'un velo tutto il resto. L'agitazione insolita, che aveva scosso per qualche attimo il petto gracile di Massimilla, si propagava entro di me a tutte le imagini anteriori turbandone le linee o dissipandole. D'un tratto uno scroscio argentino riempiva la bocca socchiusa della beatrice estatica nell'atto di generar dalle immobili palme delle sue mani le spire del silenzio! Nulla quanto il suono di quel riso poteva significarmi la profondità inaccessibile del mistero che ciascuna delle tre vergini portava in sè medesima. - Non era quello il segno fortuito di una vita istintiva dormente come un tesoro accumulato nelle radici stesse della sostanza animale? E non chiudeva i germi d'innumerevoli energie quella vita opaca e tenace su cui pur la coscienza di tanto dolore pesava senza soffocarla? - Come la scaturigine reca sul sasso arido l'indizio della segreta umidità sotterranea, così il bel riso repentino pareva salire da quel nucleo di gioia nativa che ogni più misera creatura conserva nell'intimo della sua propria inconsapevolezza. E per ciò su la mia commozione si chiarì un pensiero d'amore e d'orgoglio: «Io potrei fare di te un essere di gioia.» Allora i miei occhi si armarono di una curiosità nuova; e m'assalì quasi una smania inquieta di riguardare, di considerare più attentamente le tre persone, come se non le avessi bene vedute. E notai anche una volta qual arduo enigma di linee sia ogni forma feminina e quanto sia difficile vedere non pur le anime ma i corpi. Quelle mani in fatti, alle cui dita lunghe avevo cinto i miei più sottili sogni come anelli invisibili, quelle mani mi sembravano già diverse apparendomi come i ricettacoli d'infinite forze innominate da cui potevano sorgere meravigliose generazioni di cose nuove. E imaginai, per un'analogia strana, l'ansia e l'orrore di quel giovine principe che, essendo stato chiuso in un luogo oscurissimo con la necessità di eleggere il suo destino fra gli inconoscibili destini recatigli da messaggiere taciturne, passò tutta la notte palpando le mani fatali che si tendevano verso di lui nella tenebra. Le mani nella tenebra: - v'è forse una più paurosa imagine del mistero? Quelle delle tre principesse nubili posavano nella luce, nude; e guardandole, io pensavo agli infiniti gesti increati ch'erano in loro e alle miriadi di foglie nasciture che erano nel giardino. Anatolia, accorgendosi del mio sguardo intento, sorrise. - Ma perché voi guardate con tanta assiduità le nostre mani? Siete un chiromante, forse? - Sono un chiromante - io risposi per gioco. - Leggete allora le nostre sorti. - Mostratemi la palma sinistra. Ella mi mostrò la palma; e le sorelle imitarono il suo atto. E io mi chinai fingendo di esplorare in ciascuna le linee della vita, della congiunzione e della felicità. «Quali sorti?» pensavo intanto, dinnanzi a quelle tre belle mani tese come per ricevere o per offerire, mentre la pausa nutriva le mie inquietudini con le mille cose inespresse e inesplicate che si generavano in lei. «Forse anche nello stilo ferreo del fato avvengono quei cangiamenti subitanei cui è soggetta la declinazione degli aghi magnetici. Forse tutte le volontà che io porto in me medesimo, oscure o lucide, esercitano già la loro virtù commutatrice; e le sorti deviano tendendo verso un finale evento da cui trarrò il mio bene. Ma anche può essere che io sia il gioco di un'illusione generata dal mio orgoglio e dalla mia fede, e che il mio stato presente non sia se non quel d'un prigioniero tra prigionieri....» Grandissimo era il silenzio, nella pausa: tale che nel percepirlo io mi sgomentai d'avanti all'immensità delle cose mute ch'esso abbracciava. Il sole rimaneva ancor velato. D'improvviso Antonello trasalì volgendosi rapido verso il palazzo, con l'atto di colui che oda un richiamo. Tutti lo guardammo inquieti; ed egli ci guardò smarritamente. Le mani delle sorelle si abbassarono. - Ebbene? - mi domandò Anatolia, con l'ombra della preoccupazione nella fronte. - Che avete letto? - Ho letto - risposi - ma non posso rivelare. - Perchè? - fece ella riacquistando il suo sorriso. - Tanto è terribile quel che sapete? - Non è terribile - dissi - anzi è lieto. - Veramente? - Veramente. - Per tutte o per una sola? Esitai un istante. Non penetrava ella inconsciamente con quella domanda la mia perplessità e non mi rammentava la scelta necessaria? - Non rispondete! - ella soggiunse. - Per tutte - io risposi. - Anche per me? - chiese Massimilla, trasognata. - Anche per voi. Non prendete forse il velo per vostra elezione? E non siete sicura di giungere infine alla beatitudine che ricompensa la rinunzia totale? Come io la fissai nelle pupille, ella si tinse d'un rossore che mi parve quasi violento in quella pallidezza. - «Siate, siate quel fiore odorifero che dovete essere, e che gittiate odore nel cospetto dolce di Dio!» ha scritto per voi Santa Caterina. - Voi conoscete Santa Caterina! - fece la clarissa, brillando di meraviglia nel suo rossore. - È la mia santa prediletta - io aggiunsi, lieto di vederla così attonita, tentato dal piacere di turbare e di abbagliare quell'anima che mi pareva ardente e malsicura. - Io l'amo pel suo aspetto purpureo. Nel Giardino del conoscimento di sé ella è come una rosa di fuoco. La fidanzata di Gesù mi guardava, quasi incredula; ma il desiderio d'interrogare e di ascoltare si dipingeva sul suo volto, e nella sua fronte già un'ombra tenue indicava il solco dell'attenzione. - Il libro che io avevo meco stamani - ella disse con un leggero tremito nella voce, come s'ella mi rivelasse qualche intimità - era un volume delle sue Lettere. - Ho notato che da buona francescana voi mettete per segno nelle pagine un filo d'erba. Ma quel libro richiede un altro segno. L'erba vi si brucia come su l'orlo d'una fornace. L'essenza della terziaria è tutta in quelle sue parole: «Fuoco e sangue unito per amore!» Le avete in mente? - O Massimilla - interruppe Oddo ridendo - tu puoi congedare il padre spirituale. Ecco che hai trovato la vera guida pel Cammino della perfezione! Eravamo seduti su la sponda di un bacino disseccato, che era forse un antico vivaio, quasi interamente riempito di terriccio e tenuto dalle piante selvagge in mezzo a cui si nascondevano le mammole - certo numerose, a giudicarne dalla fragranza grande. Prossima in contro era la parete di bosso decrepita che già, nel mio primo entrare, aveva spirato verso di me quel medesimo effluvio dalle sue buche profonde. Scorgevasi, per le radure e per l'arco, il viale deserto con le sue statue mutilate e con le sue urne vedove. - È già stabilito il giorno per la vostra monacazione? - domandai a Massimilla. - Il giorno non è stabilito ancora - ella rispose - ma sarà quasi certamente prima della Pasqua. - Presto, dunque. Troppo presto! Antonello si levò in piedi, all'improvviso agitato da un'inquietudine insostenibile. Tutti ci volgemmo a lui. Egli guardò Anatolia, con un vago sbigottimento ne' suoi occhi pallidi. Poi si rimise a sedere. Un malessere indefinito entrava in noi, come se Antonello ci comunicasse qualche parte della sua ambascia. - Ieri, a quest'ora, eravamo nel campo dei mandorli - disse Oddo, con nella voce l'accento del rammarico verso un piacere fuggito. Mi risonarono spontanee nella memoria le parole di Antonello: «Bisogna condurle sotto i fiori.» - Bisogna che noi torniamo là tutti - ruppi io vivacemente lacerando quella strana atmosfera di timori e d'ansie che senza causa nota stava per addensarsi su le nostre anime. - Bisogna che noi godiamo di questa primavera così dolce. Fra una settimana tutta la valle sarà fiorita. Io mi propongo di percorrerla tutta: di salire al Corace, di rivedere Scultro, Secli, Linturno.... Come sarei felice se potessi ottenere la vostra compagnia! Non verreste volentieri? Spero che vorrete voi dare il buon esempio, Donna Anatolia. - Certo - ella rispose. - Voi ci offrite quel che è nel nostro desiderio. - E anche a voi, Donna Massimilla, sarà permesso il diporto. Come sapete. San Francesco compose il Cantico del Sole nella cella di canne che Santa Chiara gli aveva costruito dentro l'orto del monastero. I boschi, i fiumi, le montagne, le colline, secondo l'antica Regola, debbono essere i vostri fratelli e le vostre sorelle. Andare verso di loro è compiere una visitazione votiva.... E poi, a Linturno, nella città morta, la navata d'una chiesa è rimasta in piedi; e v'è una grande madonna di mosaico, sola, nel cielo dell'absida.... Me ne ricordo sempre. È indimenticabile. Te ne ricordi tu, Antonello? Udendo pronunziare il suo nome, Antonello ebbe un sussulto. - Che dici? - balbettò confuso. E il suo povero volto contratto esprimeva una tal sofferenza che io restai senza parola. - Sì, sì, andiamo, andiamo - egli soggiunse, simulando di aver inteso; e si levò di nuovo, in preda a un'agitazione manifesta, con l'aspetto di un maniaco, smorto e malfermo. - Andiamo via di qui! Anatolia, álzati.... Egli parlava sommesso, come per tema d'essere udito da qualcuno nella vicinanza, empiendoci di sgomento. - Alzati, Claudio. Andiamocene. Anatolia corse a lui, gli prese le mani. - Eccola! Eccola che viene! - balbettò egli, fuori di sè, volgendo verso il viale i suoi occhi pallidi che parevano dilatati dall'allucinazione. - Eccola! Senti? Perplesso e turbato a dentro, io da prima credetti ch'egli si sbigottisse d'un fantasma prodotto dalla sua follia. Ma anche al mio orecchio giunse un romore di passi che s'avvicinavano. E d'un tratto compresi, vedendo apparir tra i bossi la portantina. Rimanemmo là ammutoliti, immobili, trattenendo il respiro, al passaggio dello strano convoglio. S'udiva distinto il lieve scricchiolio che facevano nell'attrito le stanghe sorrette dai due servi, in un silenzio gelido come quello che circonda le bare. A traverso l'apertura dello sportello, sul fondo di velluto verdastro, io vidi allora il volto della principessa demente: irriconoscibile, contraffatto da un gonfiore esangue, simile a una maschera di neve, con i capelli rialzati su la fronte in guisa d'un diadema. Gli occhi larghi e neri splendevano su la bianchezza opaca della pelle, sotto l'arco imperioso delle sopracciglia, mantenuti forse nel loro splendore straordinario dalla visione continua d'un fasto inaudito. La carne del mento s'increspava su i monili ond'era cinto il collo. E quella enormità pallida e inerte mi risuscitò nell'imaginazione non so qual figura sognata di vecchia imperatrice bisantina, al tempo d'un Niceforo o d'un Basilio, pingue e ambigua come un eunuco, distesa in fondo alla sua lettiga d'oro. «Ecco, ci scopre, si ferma, discende, viene a noi» io mi fingeva con un'ansietà crescente, quasi aspettando la prova della realtà di ciò che sembravami una forma inverisimile sul punto di dissolversi e di rientrar nell'inesistenza come un sogno al risveglio. «Ecco, chiama qualcuno, si mette a parlare, chiede chi io sia, m'interroga....» Imaginai il suono reale di quella voce, in quel silenzio: il dialogo tra quei figli devoti a un sacrifizio inumano e quella madre trapassata per la follia in un altro mondo ov'ella doveva attrarli inevitabilmente l'un dopo l'altro. E dal mio orrore compresi il fremito profondo di repugnanza istintiva ch'era stato per Antonello un avviso misterioso, non diverso da quello ond'è assalito l'armento nel chiuso all'appressarsi della fiera che deve divorarlo. Ma ella passò senza accorgersi di noi, senza battere palpebra, dileguando tra gli alti bossi. Due serventi vestite di grigio come le beghine, taciturne e tristi, scolorate dal tedio e dalla stanchezza seguivano la portantina da presso; e le loro braccia abbandonate lungo i fianchi ondeggiavano ad ogni passo come i rosarii appesi alle loro cinture, come cose morte. Rivedevo il volto gonfio ed esangue della principessa Aldoina e la lugubre fatica dei servi e le due grige larve seguaci e tutti gli aspetti dello strano convoglio, mentre cavalcavo su la via di Rebursa novamente solo. Qualche viva parte di me era rimasta nel grande claustro, ma pur tuttavia sentivo nell'intimo la gioia d'esser novamente solo. Rivedevo i gesti del commiato presso il cancello e la meravigliosa profondità ch'era negli occhi delle prigioniere e le lontananze quasi mitiche del giardino vanenti dietro le belle persone. E, nel tempo medesimo, tutti gli altri fantasmi dell'intensa vita da me vissuta in quelle brevi ore si ammassavano nella mia anima come una ricchezza varia e confusa, raccolta per esser disposta a ornamento della mia reggia segreta. «Quali sontuosità!» mi diceva il demonico apparendomi non senza letizia e orgoglio. «Quali magnificenze in un sol giorno! Tu non potresti meglio servire il tuo scopo, che è di vivificar tutto e di estrarre da ogni più arida cosa la vita. Non riconosci ora la saggezza del mio ammonimento mattutino? Non benedici al rigore della tua lunga constrizione, onde hai questo frutto che t'inebria? La tua poesia, come la tua volontà, è senza limiti. Tutto ciò che nasce ed esiste, intorno a te, nasce ed esiste per un soffio della tua volontà e della tua poesia. E pur nondimeno tu vivi nell'ordine delle cose più reali, perocché nulla al mondo sia più reale di una cosa poetica.» Dichinava il giorno su la valle ondulata del Saurgo; e ai raggi obliqui le terre fulve s'arricchivano di oro, mentre le chiare nuvole stavano assise in cerchio su i culmini delle rocce come su' più alti gradi d'un anfiteatro, con attitudini feminee, aspettando che la sera le vestisse di porpora. «Omai tu potresti fecondare il sale» mi diceva il demonico. «Là dove il tuo spirito s'inclina, l'ubertà si dilata subitamente. Ma pur tu hai teco il favore della Fortuna: tu sei entrato nell'ignoto e nell'impreveduto non come colui che tenta ed esplora incerto, ma come colui che è atteso ed eletto alla ricolta in un campo ove s'adunano tutte le maturità più superbe, intatte ancora e pronte a riempiere il cavo delle sue mani quante volte gli piaccia di protenderle nella luce o nell'ombra. Tu sei entrato in un giardino chiuso, delizioso e spaventoso come quello delle antiche Esperidi. La felicità ti ha sorriso per tre sembianze, tra la follia e la morte, a similitudine di quell'effigiato marmo lunense che splendeva tra due nere colonne. Non v'è forse per te nel componimento di tal figura un senso nascosto?» «O despota,» io gli risposi «v'è certo un senso nascosto nella figura che tu mi rischiari, e io lo conoscerò. Ma, poiché la perfezione di quella trinità m'attira e poiché è necessario pel mio cómpito eleggere, io rimango perplesso e non senza timore d'esser deluso come un uomo.» E il demonico: «Non pur da mane ma a sera tu temi vanamente! Né è questo il tuo solo fallo; ché già dianzi, al conspetto delle beatrici, dopo aver composto su la bellezza delle loro mani ignude una bella musica, tu rammaricandoti di non poterle tutte a un tempo condurre alle tue case ti sei sdegnato contro il sopruso del pregiudizio e del costume. Ora, così facendo, tu ti sei umiliato non pure a riconoscere la potenza dell'altrui legge ma a disconoscere la potenza del tuo sogno, che sola è sacra. Perché aspiri tu al possesso legittimo dei corpi, quando le imagini ideali ornano già della loro triplice grazia la casa del tuo sogno? Tu non potresti togliere le tre prigioniere dalla loro carcere senza toglierle pur dall'incanto che le trasfigura. Grandissimo numero di misteriose rispondenze ondeggia tra quelle vite profonde e i luoghi taciti ove elle soffersero e t'aspettarono. La loro grazia, la loro desolazione e il loro orgoglio traggono dalle virtù occulte d'infiniti elementi il fascino in che ti sei compiaciuto. Così le nobili piante con lunghe radici suddivise in miriadi di fibrille assorbono dall'intimo grembo della terra le energie immortali che pel sagliente impeto dello stelo espresse alla luce si sublimano nel prodigio della corolla e del profumo. Puoi tu, o poeta, raffigurarti Egle Aretusa e Ipertusa cacciate dal loro giardino? Eracle vestito-di-stelle, quando penetrò in quel paradiso occidentale per rapirvi i frutti d'oro, rinunziò a trar seco le figlie della Notte poiché pur nella sua anima atroce sentì ch'egli avrebbe menomato e forse distrutto il mistero paradisiaco di lor bellezza.» «O despota,» gli dissi allora «io penso a Colui che deve venire.» E il demonico: «Ben sia questo sempre il sommo de' tuoi pensieri. Ma pur dianzi la necessità della scelta ti si presentava come una prova crudele, cagione di dolore e di sacrifizii inevitabili; e il cuore te ne doleva. Considera che nessuna Moira è più del Dolore degna che uno la invochi perché presieda a una generazione. Nulla nel mondo va perduto; e cose inaudite possono talora nascere dalle lacrime. Considera che la potenza massima del volere non si manifesta nella prontezza dell'eleggere tra più offerte o nella fermezza del resistere a più impulsi, ma sì nell'arte di conferire agli indistinti moti della natura efficacia lucidità e dignità di forze riconosciute e dirette. Considera che v'è un modo di esser pari sempre all'evento, nelle vicissitudini dell'incertissima vita. Fuvvi già alcuno il quale a fianco del suo tiranno, che pur con un cenno poteva dannarlo a morire, ebbe tal sembiante da far dubitare chi dei due fosse il verace signore. Sii tu dunque simile a colui, trattando l'evento con animo regale.» La cupola del cielo s'era tinta d'una pallidità giacintina, e gli oliveti ne ricevevano la calma su le chiome ond'erano dissimulate le attitudini dolorose dei tronchi negri. Su i culmini delle rocce le nuvole assise non avevano ottenuto la porpora ma una veste di più delicato colore, che le faceva languire: pur taluna levava su le compagne il capo altiero aspirando a una corona di stelle. «Tu puoi comporre intanto le tue musiche» proseguiva il demonico «su le meravigliose generazioni di cose che nascono dalle affinità e dai rapporti delle tre forme integrali quando le contempli puramente. V'è nelle loro congiunture e nelle loro attenenze un linguaggio straordinario che tu già comprendi come se tu medesimo lo avessi inventato. Di ciascuna delle loro linee tu puoi fare l'asse d'un mondo. Elle sembrano darti la gioia del continuo creare e del continuo scoprire, e aiutarti a compiere la tua unione con una parte di te medesimo rivelata inaspettatamente. Elle sembrano riversare in te la vita che da te ricevettero in un tempo immemorabile. - Non avevi tu gioito di loro prima ch'elle oggi ti sorridessero? Stando in silenzio al loro fianco, non sentivi tu la tua anima carica come una nube?» «O despota,» io gli dissi sentendo la mia anima rivolgersi con desiderio infinito verso il giardino da cui mi allontanavo nel vespero armonioso «o despota, è vero: stando in silenzio al loro fianco ho provato una voluttà più forte che se avessi disciolto le loro capellature o premuto con le labbra le loro nuche belle; e ancor ne sono pieno. Ma pur vorrei, cadendo l'ombra, tornare laggiù nascostamente e chinarmi invisibile su i petti virginei e quivi molto indugiare; perchè penso che una grande dolcezza e una grande tristezza quei petti esaleranno nell'ombra verso di me, le quali io non conoscerò mai!» III..... a sedere, con le dita delle
mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco. Leonardo da Vinci.
Dov'è più sentimento, lì è più martirio.
Lo Stesso.
Con un turbamento visibile elle ascoltavano le melodie infinite della primavera, inclinandosi o volgendosi talvolta verso le loro proprie ombre che le precedevano o le seguivano quali azzurre figure prostese a baciare la terra. Una confusa gioia di libertà e di speranza passava talvolta nei loro occhi abbagliati; una parola senza suono schiudeva talvolta le loro labbra rendendole simili agli orli delle coppe traboccanti. E, quando elle si soffermavano, io pensavo con un'intima ebrezza alla piena che le soffocava. Quel che di tratto in tratto noi dicevamo doveva sembrare anche a loro inutile; ma valeva a farci sentire quanto fosse profonda la nostra vera vita. Uno sguardo fuggevole, una reclinazione del capo, una pausa breve bastavano a commuovere in imo quegli abissi ove assai raro e fievole giunge il lume della coscienza comune; mentre quel che dicevamo era per noi lontano come per le infime radici degli alberi il susurro delle cime. Nulla poteva eguagliare in singolarità di bellezza quella campagna austera che fioriva. Su quella terra fulva e aspra come la giubba del leone le candide e rosee fioriture evocavano i fantasmi delle donzelle trepidamente piegate su i petti vasti e vellosi dei giganti leggendarii. I raggi del sole creavano intorno ai petali diafani quello splendore mobile che hanno le pietre fini. Qua e là refulgevano in duplice baleno i bidenti politi dalla gleba infranta. Noi sentivamo quanto fosse profonda la nostra vera vita. E a poco a poco, per consenso concorde, tralasciammo di proferire quelle parole vane che non valgono se non a rompere la gravità dei silenzii e a dissipare la nube troppo densa dei sogni o dei pensieri. Una comunione più lucida ci congiunse; si formò intorno a noi un'atmosfera divinatoria simile forse a quella in cui respirano i mistici; e, senza parlare, ci scambiammo qualche stupendo segreto. Eravamo talvolta così impregnati di voluttà che le nostre pupille n'esalavano un flutto in uno sguardo e i nostri minimi gesti ne trasmettevano senza contatto quanta ne può dare la carezza più lenta. I petali che cadevano ai nostri piedi, dai rami appena commossi, ci ammollivano stranamente come una confessione di languore e una complicità degli alberi felici nell'allegarsi. Le viti in punto di gemmare, inclinate su la zolla e torte e quasi convulse, ci eccitavano con l'esempio di uno sforzo spasimoso che doveva convertirsi in un dono inebriante. E dalla foglia caduca e dal magro sermento noi sentivamo in virtù ideale l'olio odorifero della mandorla e la fiamma d'oblio espressa dall'uva. Una sùbita vertigine di desiderio mi prese un giorno, quando vidi una goccia di sangue su la mano di Violante ferita da uno spino a traverso i fiori nivei di una siepe. Ella sorridendo ritrasse la bella mano che s'imperlava: e, poichè eravamo per caso discosti alquanto dalle sorelle e forse non veduti, io provai una bramosia selvaggia di premere le mie labbra su quel sangue e di sentirne il sapore. E la violenza ch'io feci a me medesimo per contenermi fu tale che ne tremai. - La vista del sangue vi sbigottisce? - mi chiese ella, con una voce che la dissimulazione non valeva a render sicura nè irrisiva. E, come le sue pupille si fissarono nelle mie, mi parve ch'io mi coprissi tutto di pallore, poichè ebbi dentro di me un sentimento indefinibile che non si può rendere se non confusamente con l'imagine di una immensa ruota girante in giri precipitosi la quale d'un colpo si arresti. Una grande cosa stava per essere risoluta in quell'attimo, da entrambi; e, se bene fossimo l'uno di fronte all'altra in un'apparenza composta, la nostra attitudine interiore era quella della tensione che precede lo scatto inarrestabile. Le nostre due vite si protendevano con tutte le forze loro. Ah, come potrei dimenticare io quel silenzio ardente in cui palpitò l'ala invisibile d'un messaggero che portava una parola non proferita? Qual virtù d'oblio potrebbe cancellare dalla mia memoria quella mano imperlata di sangue e quel roveto carico di fiori? La voce di Anatolia da lontano ci richiamò; e noi ci movemmo, l'uno a fianco dell'altra, invasi subitamente da una stanchezza e da una tristezza corporali come se fossimo esciti da una lunga notte di piaceri. Ma anche vi fu qualche istante in cui la mia anima più s'inclinò verso colei che ci aveva richiamati e verso colei che stava per dipartirsi. Io mi compiacqui in quella vicenda di amore, che non dissipava la mia forza ma la stimolava come il contrasto dei soffii eccita la vampa. Sembravami di aver trovato una nuova specie di percezioni: le più strane e le più diverse si coordinavano spontaneamente in me. Talvolta ne nasceva una musica così nuova e così bella che sembravami d'esser sul punto di trasfigurarmi; e pensavo che fosse per effettuarsi il mio desiderio di divenire un dio. Pensavo: «Se già vi fu un dio che nel tempo novello amò assidersi sotto gli alberi floridi ed estrarre dagli involucri di scorza le amadriadi segrete per accarezzarle su le sue ginocchia, egli certo non provò maggior gaudio di quel ch'io provo raccogliendo in me le essenziali bellezze di queste creature deliziose e mescendole con la stessa facilità con cui egli potè confondere le varie chiome obedienti delle sue ninfe arboree a comporre un'armonia di ori.» Così talvolta io mi credeva di vivere in un mito formato da me medesimo a simiglianza di quelli che produsse la giovinezza dell'anima umana sotto i cieli dell'Ellade. L'antico spirito di deità vagava per la terra come quando la figlia di Rea fece dono a Trittolemo delle sue spiche affinchè le spandesse ne' solchi e per lui tutti gli uomini godessero del beneficio divino. Le energie immortali circolanti nelle cose parevano pur sempre risovvenirsi dell'antica trasfigurazione che per la gioia degli uomini le aveva convertite in grandi imagini di bellezza. Come le Cariti, come le Gorgoni e come le Moire, tre erano le vergini che m'accompagnavano per mezzo a quella primavera misteriosa. E io amavo imaginar me medesimo simile a quel giovine, raffigurato sul vaso di Ruvo, cui adduce sul limitare d'un mirteto un Genio aligero. Sopra il suo capo è scritto il nome di Felicità; e tre vergini lo circondano: l'una recante nelle sue mani un piatto carico di frutti, e l'altra tutt'avvolta in un manto costellato, e la terza col filo di Lachesi tra le dita agili. Un giorno ci abbattemmo in uno spazio di terra recinto ove gli agricoltori aborigeni, perpetuando il costume religioso dei Gentili, avevano consecrato una quercia colpita dal fulmine. - Ecco una bella morte! - esclamò Violante, appoggiandosi al riparo fatto di pali in forma d'un parallelogrammo. Una santità quasi terribile stava sul luogo solitario. Non dissimile doveva essere l'aspetto del bidentale che i sacerdoti latini consecravano col sacrificio di un'agnella bienne. - Voi commettete un sacrilegio - io dissi a Violante. - Non si può toccare il recinto sacro senza profanarlo; e il Cielo punisce con la frenesia la persona colpevole.... - Con la frenesia? - fece ella scostandosi, per un istinto superstizioso, e col suo atto segnando d'un'impreveduta gravità la mia allusione alla credenza pagana. In un lampo rividi il volto gonfio ed esangue della madre folle e gli occhi smarriti di Antonello, e riudii quel tragico grido: «Noi respiriamo la sua follia»; e non so qual sensazione gelida di fatalità mi corse. - No, no, non temete! - dissi io involontariamente, aumentando forse l'ombra con quel segno palese di rammarico per l'accenno che doveva sembrare un tristo augurio o un presagio crudele. - Non temo - rispose colei, senza sorridere, appoggiandosi di nuovo al recinto. Così da una vana parola nacque una grande ombra. L'albero fulminato sorgeva dinnanzi a noi, nerastro e lapideo come il basalto, mostrando il suo possente tronco aperto fino alle radici da una squarciatura che evocava la terribilità d'una forza vindice. Privo de' rami nel fianco percosso, ne conservava in sommo dell'altro fianco alcuni, simili a braccia contratte, che levavano verso il sole la disperazione implacabile dei loro gesti. Ad ogni angolo del recinto stava infisso un teschio d'ariete dalle corna ricurve, divenuto bianchissimo sotto intemperie senza numero. Tutto era immoto e morto, e sacro, e d'aspetto primordiale. Giungevano dall'alto azzurro, di tratto in tratto, strida di sparvieri. Veloci passarono i giorni; e sembrarono giorni d'addio verso colei che stava per dipartirsi. - Guardate la primavera con tutta l'intensità delle vostre pupille - io le diceva - perchè non la vedrete più, mai più! Io le diceva: - Riscaldate le vostre mani al sole, immergetele nel sole, queste povere mani; perchè fra poco le terrete incrociate sul petto o nascoste sotto il grembiale di lana bruna, nell'ombra. Io le diceva, mostrandole un fiore: - Ecco un prodigio di cui bisogna lodare il Cielo. Considerate le innumerevoli scritture che contiene il tessuto argentino di questa corolla, e il rapporto occulto che corre tra il numero dei petali e quello degli stami, e la tenuità dei filamenti che sostengono i lobi delle ántere, e queste tuniche diafane e queste reticole e queste valve e queste membrane coperte d'una pelurie quasi impercettibile, ov'è chiusa l'agitazione misteriosa della fovilla, e tutta la divina arte che si rivela nella struttura di questo corpuscolo vivente, pur nella sua fralezza dotato d'infinite potenze per amare e per fecondare. Considerate la rete mobile delle ombre che fa sul terreno il fremito delle foglie e quella che fa su la parete il raggio riverberato dall'acqua tremolante, l'una azzurra, l'altra d'oro per cullare la vostra malinconia; e le piccole dita bionde che si alzano in cima ai rami dei pini; e le stille di rugiada che pendono in cima alle reste dell'avena; e le esilissime nervature nelle ali delle api; e gli occhi verdi splendenti delle libellule fuggevoli; e le iridi che variano la gola gonfia dei palombi; e le strane imagini che sorgono dalle macchie dei licheni, dagli screpoli dei tronchi, dalla disposizione delle selci.... Raccogliete tutte queste meraviglie sotto le vostre palpebre che dovranno rimaner tanto tempo abbassate dinnanzi al Signore Gesù crocifisso. Nel vecchio monastero della regina Sancia non vi sono orti, io credo, ma cortili di pietra. - Perchè mi tentate? - ella mi chiedeva. - Perchè vi compiacete nel turbare la mia volontà così debole? Siete forse inviato da Dio per esperimentarmi? - Non voglio turbare la vostra volontà - io le rispondeva - ma oso darvi un consiglio fraterno perchè possiate meno soffrire. Penso che quando sarete sepolta, quando non potrete accostare la guancia a una grata senza ferirvi contro le punte, voi cresciuta in un giardino, avrete qualche settimana di furiose impazienze, e tutte le visioni dell'aria aperta passeranno nella vostra memoria. Allora proverete una tortura inaudita se non potrete rappresentarvi con esattezza i minuti screzii neri e gialli che ornano il dorso della lucertola o la tenera foglia lanuginosa che spunta sul ramo del melo. Io conosco la smania di queste curiosità tardive. Una volta amavo appassionatamente un gran levriere di Scozia donatomi da mio padre. Era una bestia magnifica, elegantissima, d'una nobiltà senza pari. Quando morì, io caddi in una profonda afflizione; e mi tormentava singolarmente il rammarico di non potermi rappresentar in forma precisa i granelli d'oro che costellavano i suoi occhi bruni e le macchie grige che maculavano il suo bel palato roseo intraveduto talvolta in uno sbadiglio o in un latrato. Bisogna dunque che noi guardiamo sempre con pupille attente, specie le creature che più amiamo. Non amate voi le cose che dianzi indicavo alla vostra attenzione e non siete per abbandonarle? Non siete per mettere tra voi e loro una specie di morte? Ella stava a sedere, con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco. La sua grazia delicata era un po' contratta dall'inquietudine che le dava l'ambiguità del mio dire tra grave e futile, tra ingannevole e sincero. E così parlandole io provavo un piacere analogo a quello che avrei provato scompigliandole le bende lisce dei capelli su cui pendevano le forbici argentee della tonsura. «Tondeantur in rotundum...» Avevo ancor limpida nella memoria la freschezza del giovenile riso ch'erale sgorgato dalla bocca il primo giorno, nell'ultima ora, empiendomi di meraviglia. E mi piaceva d'assembrar le imagini di quelle cose variopinte ed esigue intorno alla monacanda che nel già lontano pomeriggio di febbraio m'aveva rivelato come un segreto miracolo la fioritura notturna d'un suo biancospino. Io la ricercava come si ricerca quel bene del quale si conosce la brevità. Ella m'attraeva come una pura forma di giovinezza che si volgesse a me lacrimosamente sorridendo dalla soglia di una porta oscura, sul punto di entrarvi e di perdervisi. Avrei voluto dire alle sue sorelle: «Lasciate ch'io l'ami finché ella è di questo mondo, e ch'io versi qualche aròmato su i suoi piccoli piedi!» Spesso m'avvenne di rimanere solo con lei, nelle mie lunghe visite, e di poter trattare in qualche spirituale colloquio la sua anima così duttile e così bisognosa di servire. A quando a quando Anatolia scompariva, come una delle due donne grige si presentava a invocarla con lo sguardo. Violante da alcuni giorni si mostrava difficilmente, pareva schivare la mia compagnia, considerarmi con indifferenza, rioccupata dal suo tedio consueto. I due fratelli non sopportavano a lungo la gran luce del cielo aperto. Onde m'avvenne più volte di rimaner solo con la clarissa, nell'atrio esterno su un sedile di marmo ch'era sotto la statua dell'Estate, o nell'ombra delle scalee già verdeggianti, o su la sponda del vivaio inaridito. Io le diceva: - Forse voi vi siete ingannata nell'elezione del vostro sposo, cara sorella. Quando udrete il vescovo annunziare Ecce sponsus venit, voi tremerete nell'intimo cuore credendo che una mano bella e forte sia per distendersi verso di voi e per raccogliervi tutta quanta nel cavo della palma come acqua; poichè è ben questo l'atto dolce e imperioso che voi aspettate dal vostro dominatore e che si conviene alla vostra naturale fluidità, cara sorella. Ma forse rimarrete delusa, a piè dell'altare. E, se oserete levar gli occhi, vedrete fra i ceri ardenti immobile lo Sposo annunziato e le mani di Lui trafitte e il capo di Lui cinto di spine. Sembra, cara sorella, che sia necessario sconficcare i ferri crudeli; i quali furono assai profondamente infissi. E sembra che a compiere un tale atto occorra una forza terribile. Bisogna quindi curar le piaghe con infinita pazienza e con balsami composti di erbe che non si posson cogliere se non in certe sommità vertiginose ove l'aria è irrespirabile. E, rimarginate le piaghe, convien rinfondere nelle vene il sangue che ne sgorgò. E, compiuta alfine la durissima opera, accade talvolta che le mani sanate si ritraggano d'improvviso. Sembra che assai rare sieno quelle spose cui è concesso vederle veracemente rivivere; e pur di quelle elette appena una, in qualche mistica sera, ha la suprema gioia di sentirsi prendere tutta quanta, chiudere tutta quanta nel pugno constrittore, com'è ne' vostri voti.... Mormorava la vergine servile: - Voglia Iddio ch'io sia quell'una! - Ah, cara sorella - io le diceva - pensate quale immensa forza debba avere in sè quell'una per ravvivare una mano morta e per contrarla così violentemente! - Io non ho alcuna forza, ma la implorerò dal Signore. - Il Signore non potrà se non rendervi la forza che voi medesima gli avrete infusa, Massimilla. - Tacete, vi prego! - ella supplicava. - Temo che le vostre parole sieno empie. - Non sono empie: potete ascoltarle. Non avete voi nella memoria la prima strofe della Glosa di Santa Teresa? V'è là un Dio fatto prigioniero. Pensate qual potenza occorra per incatenare il Signore! Voi vedete bene, suor Acqua, come sempre si richiedano importuni atti virili dalla sposa decantata nelle Antifone e nei Responsorii. Per ciò, avendo io verso di voi una sollecitudine fraterna, vorrei almeno preparare la vostra anima all'amarezza del disinganno. Non la cullate troppo nelle promesse dei Salmi! V'è, mi sembra, qualche magnifica e voluttuosa promessa nei versetti che avete appresi «Veni, Electa mea.... Vieni, o Eletta, perchè un re ebbe desiderio della tua bellezza. Vieni! Passò l'inverno, la tortora canta, le vigne fiorenti auliscono....» Ah, è veramente incomparabile quel latino psalmistico per dare l'imagine dell'ebrietà d'amore profondata sotto un'opulenza soffocante. Certi versetti paiono grondare d'olii odoriferi come capellature di schiave o pesare e rilucere come masselli d'oro. Quando il vescovo vi porrà sul capo la corona della verginale eccellenza, le vostre labbra dovranno pronunziare alcune parole ammirabili; nelle quali io sento e vedo non so che pondo e che splendore misteriosi. «Et immensis monilibus ornavit me.» Parole ammirabili! Non è vero? Ella ora mi guardava con tanta passione che tutta la sua piccola anima tremava tra le sue ciglia come una lacrima, e io avrei potuto suggerla inclinandomi appena. - Forse io vi faccio male, un poco - le dissi. - Ma veggo in fondo ai vostri occhi un sogno così ardente che temo per voi, cara sorella; poichè la vita a cui vi apparecchiate non potrà essere conforme al vostro sogno e alla vostra natura. Vi aspetta una vita mediocre, sempre eguale, quasi torpida, misurata dalla Regola immutabile, in quel vecchio monastero della regina Sancia che già fu sepolcro a più d'una Montaga e a più d'una Cantelma. Io ho nella mia memoria una visione di quelle clarisse in un giorno di Cenere. Quando ero a Napoli, la chiesa angioina di Santa Chiara m'attraeva non solo perchè vi riposa qualcuno dei miei maggiori, non solo perchè vi si può invidiare il duca di Rodi che dorme nel sarcofago pagano di Protesilao e Laodamia, ma anche perchè chiudendo gli occhi vi si può assaporare la poesia diffusavi da qualche bel nome di donna morta. V'è Maria duchessa di Durazzo e imperatrice di Costantinopoli, v'è la principessa Clemenza, v'è Isotta d'Altamura, e Isabella di Soleto, e Beatrice di Caserta, e quella deliziosa Antonia Gaudino che vi rassomiglia, così dolcemente addormentata nel marmo sotto il velo che Giovanni da Nola tolse alla più giovine delle Càriti. Ho nella memoria una visione di clarisse in un giorno di Cenere. V'è dietro l'altare maggiore un'ampia grata nera, tutta irta di punte, che chiude il coro monacale; e vi s'intravedono gli ordini degli stalli ove seggono le suore, mentre il vescovo assistito da un cappuccino siede di qua dall'ostacolo reggendo tra le mani un bacile d'argento pieno di cenere. Uno sportello è aperto nella grata, e le clarisse a una a una vengono e s'inginocchiano. Il vescovo introduce pel vano il braccio vacillante e segna di cenere le fronti a una a una. Le segnate si levano e tornano ai loro stalli, come larve, disfiorando il pavimento con i silenziosi piedi calzati di panno. Tutto si compie in silenzio e tutto è gelido come la cenere. Ah, cara sorella, quando avrete ricevuto anche voi quel gelo, chi mai riscalderà la vostra piccola anima? - Chi riscaldava l'anima di Santa Chiara e la faceva ardere? - mi oppose la monacanda, come riscotendosi per non esser vinta, mentre le sue gote si coloravano. - Un uomo: Francesco d'Assisi. Voi non potete imaginare la Damianita se non in ginocchio ai piedi di Francesco. Un artefice religioso la figurò nell'atto di scambiare un bacio col Serafico. E ripensate il lungo idillio che fu tessuto fra l'eremo di San Damiano e la Porziuncula; ripensate le settimane di passione, di dolore e di pietà trascorse nel giardino del monastero, all'ombra degli olivi, in una estate di gran sete, quando Chiara beveva le lacrime effuse dagli occhi di Francesco quasi ciechi; ripensate infine il colloquio tra i due mistici amanti, che precedette quella suprema estasi ond'eruppe come un getto di luce il Cantico delle Creature. Avete là accanto a voi i Fioretti. Ebbene, rileggete il capitolo in cui si narra «come Santa Chiara mangiò con San Francesco». Mai convito nuziale fu illuminato da più splendide faci di amore. Ecco: «Gli uomini d'Assisi e da Bettona, e que' della contrada d'intorno, vedevano che Santa Maria degli Angeli e tutto il luogo e la selva ch'era allora allato al luogo ardevano fortemente, e parea che fosse un fuoco grande che occupava la chiesa e il luogo e la selva insieme: per la qual cosa gli Assisiani con gran fretta corsero laggiù per ispegnere il fuoco, credendo veramente che ogni cosa ardesse. Ma, giugnendo al luogo e non trovando ardere nulla, intrarono dentro e trovarono San Francesco con Santa Chiara....» Voi vedete bene, cara sorella, in quali modi la patrona della vostra Regola potesse ripararsi dal gelo. Convenite che la differenza è grande fra l'eremo luminoso di San Damiano e la clausura del vostro monastero angioino. Qui nessun incendio ma un'eguale ombra grigia ove l'umiltà si fa inerte.... Di quale specie è la vostra umiltà, Massimilla? Io penso che il vostro bisogno di schiavitù sia molto altiero. Ella taceva, scoraggiata e anelante; ed era così dolce e così misera nel suo sbigottimento che io avrei voluto prenderla su le mie ginocchia. - Quando appariste su per la scalea, il primo giorno, sùbito mi deste imagine dell'ermellino. Ora, sembra che nella nostra imaginazione il candore dell'ermellino non possa andar disgiunto dall'orgoglio della porpora, tanto siamo assuefatti a considerar l'uno e l'altra riuniti nei manti regali. Non forse voi portate il vostro manto a rovescio, Massimilla, per modo che la porpora è di sotto invisibile? Tale è bene la maniera d'una Montaga. - Io non so - ella rispondeva smarritamente. - Tutto quel che voi dite, pare che debba essere. Ed era come se ella confessasse: - Io sarò quale voi mi vorrete. - Se io fossi il vostro sposo, Massimilla - soggiunsi, per accarezzare la sua piccola anima tremante - io vi darei una casa ove il giorno entrasse a traverso lamine d'alabastro color di miele o vetri istoriati d'istorie sibilline; e vi farei servire da cameriste e da silenziarie, calzate di feltro e vestite di stoffe placide, che passerebbero dinnanzi a voi come grandi farfalle notturne; e certe stanze avrebbero pareti di cristallo guardanti su immensi aquarii, nascoste da cortine che la vostra mano potrebbe agevolmente aprire quante volte vi venisse il desiderio di viaggiare in sogno con gli occhi per una valle oceanica piena di vite ricche e strane; e intorno alla casa vorrei crearvi un giardino di alberi che prodigassero fiori e lacrimassero aromi, e popolarlo di animali leggiadri e miti come gazzelle, colombe, cigni, paoni. E quivi, in armonia con tutte le cose, voi vivreste per me solo. E io, ogni giorno, dopo aver appagato con qualche atto efficace il mio bisogno di predominio su gli uomini, verrei a respirare l'aria sublimata dal vostro silenzioso amore, verrei a vivere presso di voi la vita pura e profonda dei miei pensieri. E qualche volta io vi comunicherei una febbre veemente; e qualche volta io vi farei piangere un pianto inesplicabile; e qualche volta io vi farei morire e rivivere per essere ai vostri occhi più che un uomo. S'apparecchiava ella intanto alla dipartita o s'indugiava attendendo con impazienza quel che per lei tuttavia era inatteso? Come io saliva pel viale dei vecchi bossi ove prima erami apparsa Violante sotto il grande arco, ella m'uscì incontro quasi nel medesimo luogo sorridendo d'un sorriso nuovo. - Voi avete oggi l'aspetto d'un angelo che rechi il buon messaggio - io le dissi. - È tutto in voi lo spirito d'aprile. Ella mi porse la mano ch'io presi e tenni nella mia alquanto. - Che cosa dunque dovete annunziarmi? - le domandai leggendole negli occhi la novità che la trasfigurava. Ella si smarrì, sotto il mio sguardo; e anche una volta si tinse d'un rossore che mi parve quasi violento in quella pallidezza. - Nulla - rispose. - Eppure - io le dissi - v'è in tutta la vostra figura un'annunciazione. Voi me la comunicherete senza parlare, se mi concederete di camminare al vostro fianco per qualche tratto. Non ho mai sentito come in questo momento, Massimilla, la vostra armonia. Ella certo credeva ch'io le parlassi di amore, tanto era confusa. E raggiava da tutta la sua figura uno spirito di gentilezza così vivo ch'io ripensai quelle gentili donne adunate nelle imaginazioni di Dante giovine; dalle cui labbra a quando a quando, come cade «l'acqua mischiata di bella neve», cadono parole mischiate di sospiri. E poichè io l'amava inumanamente, anche mi tornarono alla memoria alcune delle antiche parole. «A che fine ami tu?... Dilloci, chè certo il fine di cotale amore conviene che sia novissimo.» Noi avevamo lasciato il viale medio per internarci nel labirinto erboso. Cantavano gli uccelli ospiti del claustro, gli insetti lucidi ronzavano intorno; ma il mio orecchio era attento al fruscio che l'orlo della gonna produceva inclinando le cime dell'erbe cresciute. Confessò alfine Massimilla, con timida voce: - La mia partenza è differita. Soggiunse, come per giustificarsi: - Potrò così celebrare con i miei l'ultima Pasqua.... Ma a me parve, subitamente, ch'ella mi fosse caduta fra le braccia e che la sua guancia aderisse al mio petto e che per disgiungerla da me io dovessi farla sanguinare. Nondimeno esclamai: - Ecco la buona novella! E non altro dissi, perchè il mio turbamento al contatto di quella vita palpitante fu così fiero che m'impedì qualunque simulazione pietosa. Certo, ella attendeva da me parole di amore e di allegrezza, e ch'io le prendessi le mani, e ch'io le domandassi: - Volete rinunziar per sempre ai vostri voti ed essere tutta mia? - Questo ella attendeva. E, sentendo così vicina a me la sua angoscia, sentendomi quasi ventar sul viso come una vampa la sua bramosia di donarsi e d'esser felice, io era agitato da un fremito non dissimile a quello dell'uomo cui d'un tratto è posta sotto gli occhi una larga lacerazione che discopre gli intimi tessuti della carne viva. V'era qualche cosa di quel raccapriccio nella mia sofferenza. Fino a quell'ora io m'ero dilettato della cara anima come d'una capellatura morbida ove sia dolce insinuare le dita pensando che domani sarà recisa. Ed ecco, quell'anima aderiva alla mia con tutte le sue pene. «Io potrei fare di te un essere di gioia!» Era come una promessa, era quasi un desiderio. E l'una e l'altro trasparivano pur nelle ultime mie parole; e veramente, fino a quell'ora, inclinandomi verso la cara anima io aveva di tratto in tratto inteso l'orecchio a percepire un indizio di quella vena occulta ond'era sorto un giorno il bel riso repentino. Ah perchè doveva io dunque deludere una speranza tanto dolorosa e rinunziare a cingere di quella silente adorazione il mio potere? Noi eravamo soli, in una strana solitudine ove io sentiva quasi direi la vacuità dello spazio aereo che avrebbero occupato le altre due figure se presenti accanto a noi. E l'ansietà che quell'assenza produceva nel mio spirito era penosa come l'affanno dell'attesa. - Dov'erano, che facevano Anatolia e Violante in quell'ora? Stavano anch'elle nel giardino? - Io le vedevo spuntare alla svolta d'ogni sentiero, e imaginavo l'espressione del loro primo sguardo nell'incontrarci. E consideravo la singolarità del contegno che entrambe avevano mantenuto in quei giorni e cercavo di penetrarne il significato vero. Anatolia m'appariva con quel suo benigno ed eroico sorriso di martire, rassegnata a spremere fino all'ultima stilla tutte le virtù del suo cuore per lenire mali immedicabili; m'appariva con que' suoi occhi puri che avevano talvolta un bagliore invitevole, come le acque dei laghi nelle leggende rivelano con un insolito riflesso l'esistenza dei sommersi tesori. Chiusa nel suo tedio e nel suo disdegno, Violante m'appariva in un'attitudine enigmatica che poteva sembrar quasi ostile, infondendomi una specie di malessere non dissimile a quello che dànno i presentimenti funesti; poichè ella aveva dietro di sè per la mia imaginazione l'ombra della sua roccia fatidica e il mistero delle sue remote stanze pregne di profumi mortali. Io avrei voluto chiedere a colei che mi veniva da presso: - V'è qualche cosa di mutato nella voce delle vostre sorelle dilette quando elle vi parlano quando parlano tra loro? Hanno elle talvolta nella voce e nello sguardo qualche cosa che vi fa male? E piomba talvolta su voi, mentre siete l'una accanto all'altra respiranti nel medesimo cerchio, piomba su voi un silenzio che vi soffoca, simile a quello che precede gli uragani? E sentite allora inaridirsi d'un tratto la vostra tenerezza e sollevarsi dal fondo un'acredine simile a un tossico? E, ditemi, piangono le vostre sorelle in disparte? O anche v'accade, talvolta, di piangere insieme? Così avrei voluto interrogare la taciturna e soffrire d'amore con lei. Io la guardai. Ella soffriva e gioiva. - Voi portate sempre un libro - io le dissi, per rompere alfine l'incanto ambiguo - al modo di una sibilla. Ella mi mostrò il volume. - È il libro che portavo il primo giorno - disse ella, con quel suono indefinibile che rivela nella voce l'umidità delle lacrime. - E il filo d'erba? - S'è bruciato. - Metteteci dunque una rosa rossa. Ma ella aveva nella sua commozione una grazia così umile, e tanto ingenuamente lasciava trasparire l'intimo ardore da cui era compresa, ch'io non seppi discostarla da me nè seppi rifiutar la dolcezza di sentirla struggere a poco a poco. - Sediamoci - le dissi. - Leggiamo insieme qualche pagina. Vi piace il luogo? Era una piccola eminenza prativa, constellata di anemoni, quieta, a cui alcuni tassi in forma di piramidi davano quasi un aspetto cimiteriale. Nel centro una cariatide, ripiegata in modo che il petto toccava quasi le ginocchia, sosteneva la lastra marmorea d'un orologio solare. E quivi, come presso una mensa, stavano due sedili per una coppia di amanti che guardando l'ombra dello gnomone volessero provare la voluttà malinconica di un lento e concorde perire. Ancora scorgevasi incisa nel marmo, sotto le linee orarie, la sentenza: ME LVMEN, VOS VMBRA REGIT. - Sediamoci qui - io dissi. - È un luogo delizioso per godere il sole d'aprile e per sentir fluire la vita. Una lucertola verde ci guardava con i suoi piccoli occhi lucenti, ferma sul quadrante, senza timore, come un essere familiare. Quando ci sedemmo, disparve. Allora io posi le mani sul marmo, che era caldissimo. - Quasi scotta. Sentite! Massimilla vi pose anch'ella ambe le mani, bianche sul bianco; e ve le mantenne. Il punto d'ombra attingeva l'estremità dell'anulare, restando coperta dalla palma la cifra indicatrice dell'ora. - Ecco che voi siete designata dallo stilo come l'ora della beatitudine - io le dissi perchè gustavo profondamente l'armonia della sua grazia in quell'atto e perchè così l'amavo. Ella socchiuse gli occhi; e anche una volta la sua piccola anima tremò tra le sue ciglia come una lacrima, e io avrei potuto suggerla inclinandomi appena. - La santa - soggiunsi toccando il libro - ha per voi nel flutto della sua prosa un verso divino, d'una soavità suprema, più soave di quelli che germinavano nella mente di Dante prima dell'esilio. «Stava quasi beata e dolorosa.» Ella si sentiva circonfusa di luce e d'amore, come già forse ne' suoi sogni reconditi; e beveva dalla mia parola e dalla mia presenza e dalla sua illusione e dall'aperta primavera un'ebrezza il cui ricordo doveva forse riempire tutta la sua vita. Non parlava, immobile nell'atto in che io l'avevo lodata; ma io compresi le cose ineffabili che diceva il sangue eloquente nelle vene delle sue belle mani ignude. «Lasciate ch'io l'ami finchè ella è di questo mondo!» ripetevo alle sue sorelle, poichè mi sembrava di veder rilucere i loro occhi tristi a traverso la fronda dei tassi. «Lasciatemi cogliere questi anemoni e versarli su la sua chioma che sarà tonduta!» Ella stava quasi beata, e la sua inconsapevolezza più m'inteneriva, perchè io l'amavo e le dicevo: «Io t'amo, ma a patto che domani tu muoia. Io ti do questa fiamma purchè tu la porti teco nel tuo sepolcro. Tale è la necessità che ci preme.» Ella si scosse, e si passò le mani su la faccia; e mormorò: - Questo sole dà lo stupore. - Volete che andiamo? - le chiesi. - No - rispose ella con un debole sorriso. - Secondo il vostro consiglio, io debbo saturarmi di sole. Restiamo ancora un poco qui. Dianzi, volevate leggere qualche pagina. Ella appariva estenuata come se fosse a pena rinvenuta da un deliquio. - Leggete, dunque! - pregò, spingendo il libro verso di me. Io lo presi, lo apersi e lo sfogliai qua e là, scorrendo con gli occhi qualche linea. L'ombra fugace d'una rondine passò su la pagina; e udimmo da vicino il fremito delle ali. - Che meraviglia fu per me - ella soggiunse - quando quel giorno voi mi ripeteste l'esortazione di Santa Caterina! Io era ancora tutta piena del suo spirito, e voi quasi indovino mi parlavate di lei.... Sentivo nella voce della clarissa una confidenza e un abbandono così profondi ch'ella non avrebbe saputo più palesemente significarmi: «Eccomi, io sono tua, io t'appartengo tutta quanta come nessun'altra creatura viva, come nessuna cosa inanimata potrebbe appartenerti. Io sono la tua schiava e la tua cosa.» Veramente ella pareva possedere una qualità innaturale, pareva per sè abolire la legge che vieta agli uomini nell'amore il dono e il possesso perpetui e perfetti. Ella pareva veramente, nella gran luce del sole, trasfigurarsi per la mia imaginazione in una forma cristallina e fluida, in una liquida essenza ch'io potessi assorbire, di cui potessi impregnarmi come d'un profumo. - Io credo - le dissi - che qualche volta leggendo questo libro voi dobbiate sentir la vostra anima evaporare come una goccia su un ferro arroventato. Non è vero? «Fuoco e abisso di carità, dissolvi oggimai la nuvola del corpo mio!» grida la santa. E voi avete segnato in margine queste parole. V'è in voi un'aspirazione costante a vanire. Il suo volto bianco mi sorrise nel sole, su la bianchezza del marmo, quasi sparente. - Ecco un altro segno. «Anima ebra, ansietata e affocata d'amore.» Eccone anche un altro. «Siate un'arbore d'amore, innestata nell'arbore della Vita.» Quale eloquenza di passione ha questa vergine! Ella affascina tutte le taciturne, perchè parla e grida per loro. Ma ciò che rende prezioso il libro, a chiunque ami la vita, è l'abondanza del sangue che vi scorre, vi bolle e vi fiammeggia di continuo come su un altare di sacrifizio nel giorno delle grandi immolazioni. Pare che questa domenicana non abbia del mondo se non una visione vermiglia. Ella vede tutte le cose a traverso un velo di sangue ardentissimo. «La memoria s'è empiuta di sangue» ella dice. «Troverò il sangue e le creature, e berrò l'affetto e l'amore loro nel sangue.» Una specie di rossa demenza l'assale talvolta. «Annegatevi nel sangue» ella grida «bagnatevi nel sangue, saziatevi di sangue, inebriatevi di sangue, vestitevi di sangue, doletevi di voi nel sangue, rallegratevi nel sangue, crescete e fortificatevi nel sangue!» Ella conosce tutto il pregio del dolce e terribile liquore poichè lo vede non solo nel calice ma erompere dalle vene degli uomini, ella che è presa nel turbine della vita, ella che porta il suo velo in mezzo al fremito degli odii atroci e delle passioni violente onde il suo secolo è bello. Ecco qua la meravigliosa lettera a Frate Raimondo da Capua. Avete voi potuto leggerla senza tremare nelle midolle? «E teneva il capo suo in sul petto mio. Io allora sentiva uno giubilo e uno odore del sangue suo....» Quel che qui io sento non è soltanto l'estasi eucaristica ma la voluttà reale. Mi par di veder palpitare e dilatarsi le narici delicate della giovine donna. È ben di lei questa frase che io ammiro: «Armarsi della propria sensualità.» Ella doveva avere i sensi acuti, perchè tutta la sua scrittura è brulicante d'imagini vive, fierissima di colorito e di movimento, quasi dantesca nel vigore e nell'audacia. Ah, cara sorella, non è questa una guida che possa condurvi in pace alla porta del chiostro! Voi sentite nella tunica della Mantellata non soltanto l'odore del sangue ma tutti gli odori della vita superba per mezzo a cui ella è corsa, indòmita. Una moltitudine innumerevole, vestita di bigello e di porpora, di ferro e d'oro, l'ha avvolta come un turbine, con «il fuoco dell'ira e dell'odio», che non è men fervido del fuoco d'amore. Frati, monache, eremiti, donne di delizia, condottieri, principi, cardinali, regine, pontefici, tutte le tempre d'un secolo duro e magnifico ella tratta con la sua volontà infaticabile. Ella è possente in contemplazione e in azione. Ella chiama «carissimo fratello» Alberico da Balbiano, e i cavalieri della Compagnia di San Giorgio «carissimi figliuoli». E alla regina Giovanna di Napoli osa scrivere: «Ahimè, piangere si può sopra di voi come morta!» E a Gregorio XI: «Siatemi uomo virile, e non timoroso.» E al re di Francia dice: «Voglio». Per ciò, Massimilla, io la prediligo; e anche perchè ella possiede un Giardino, una Casa e una Cella del conoscimento di sè; e anche perchè è di lei questo motto: «Mangiare e gustare anime»; e infine perchè, prima del Vinci, ella ha scritto: «L'intelletto nutrica l'affetto. Chi più conosce più ama; e più amando più gusta.» Alta parola, che è la regola d'ogni bella vita interiore. Io seguivo, parlando, negli occhi aperti e fissi di Massimilla il ritmo lento di un'onda che pareva aver non so qual rispondenza musicale con il suono della mia voce; e così nuova e strana era per me quella sensazione che io prolungavo il mio dire per tema d'interromperla. Appena tacqui, in fatti, ella chinò la fronte; e in silenzio lasciò sgorgare dai suoi limpidi occhi due rivi di lacrime. Non le chiesi perchè piangesse; ma le presi le mani che erano come dolci foglie arse dal meriggio. E sotto quel cielo d'aprile estuoso, presso quel marmo abbagliante su cui l'ombra dello stilo sembrava immobile da indefinito tempo, tra quei tassi funerei e quei coronali anemoni, io ebbi alcuni attimi d'indicibile esultanza. Io vidi uno spirito, che non era il mio, giungere di repente e mantenersi per alcuni attimi in quella parte della vita, di là dalla quale - secondo il verbo di Dante - non si può ire più per intendimento di ritornare. E mi parve che, dopo, il resto dell'amore e della vita non dovesse per quello spirito aver pregio alcuno. Dopo, mi parve che la beatrice riprendesse per me il sembiante ch'ella m'aveva mostrato il primo giorno sedendo tra i due fratelli come l'imagine della Preghiera. Avendo sollevato il suo velo per guardare nella profondità de' suoi occhi, io avevo veduto sotto la mia investigazione compiersi un rapido prodigio. Ne conservavo ancora dentro di me una specie d'abbagliamento; ma il velo era ricaduto, e per sempre. Di nuovo ella mi parve «partita di questo secolo». Cosicchè, quando un giorno Oddo mi raccontò una storia pietosa di nozze impedite dalla morte, io l'ascoltai come si ascolta una leggenda di tempi remoti; e sentii allora come fosse vero e profondo il mio distacco. Ella era stata amata e richiesta in isposa da Simonetto Belprato, due anni innanzi; e, a similitudine d'Ifianea, aveva perduto il promesso quasi alla vigilia del maritaggio. Già vicina alle sue nozze, beata Oddo mi ravvivò nella memoria il ricordo pallido di Simonetto; e mi rappresentò la mite figura giovenile di quello studioso, erede ultimo di una famiglia nobile di Trigento, ritrattosi nella provincia presso la madre vedova per erborare e morire. - Povero Simonetto! - diceva Oddo rimpiangendolo con animo fraterno. - Lo vedo ancora in arnese di erborista, col suo tubo di latta appeso a una spalla, col suo bastone uncinato e col suo portafoglio di marocchino verde. Passava quasi tutti i giorni a erborare o a preparare e a disseccare le piante raccolte. Aveva riempito la sua casa di erbarii; e su le custodie egli poteva ben mettere per emblema la sua arme fiorita. Tu sai: i Belprato usano per arme un campo partito in linea retta da una fascia d'oro, il cui mezzo campo superiore è rosso con un giglio d'argento e quel di sotto è verde tutto seminato di fiori rossetti con fronde d'oro. Non ti par singolare, Claudio, questa congiuntura? L'ultimo dei Belprato erborista! Io predicavo a Massimilla, per ridere: - Tu finirai tra due fogli di carta grigia. - S'erano fidanzati nel giardino, erborando, e parevano fatti l'uno per l'altra. Noi anche eravamo contenti, perché Massimilla non si sarebbe allontanata troppo da noi e sarebbe entrata in una buona casa. (I Belprato sono, come sai, di nobiltà antica, benchè decaduti negli ultimi secoli. Vennero di Spagna nel Regno con Alfonso d'Aragona.) Tutto era pronto per le nozze. Mi ricordo bene del giorno in cui arrivò da Napoli l'abito nuziale con la ghirlanda di fiori d'arancio, dono magnifico di nostra zia Sabrano. Massimilla se lo provò: era deliziosa. Io e Antonello volemmo che anche Anatolia e Violante se lo provassero, per augurio: povere creature adorate! La ghirlanda - mi ricordo - s'impigliò nelle trecce di Violante in un modo così strano che non fu possibile toglierla senza strappar qualche capello che rimase tra i fiori. Una delle serventi mormorò ch'era un cattivo presagio. Non mentiva. Simonetto, in fatti, doveva rimaner vittima della sua manìa. Era d'autunno; ed egli si recava spesso a Linturno per raccogliere le piante acquatiche nel fiume morto. Certo là, e non altrove, prese il germe della febbre perniciosa che lo distrusse in due giorni. Avemmo un funerale invece d'uno sposalizio. Fortunati sempre! Eravamo nelle stanze di Antonello, che le tendine abbassate rendevano quasi oscure poiché il giorno di fuori s'annuvolava. Io non vedevo per le finestre il cielo; eppure avevo su me la sensazione del tepore esterno, un po' snervante, ed ero certo che di fuori cominciava a cader qualche goccia di pioggia, qualcuna di quelle lagrime calde che sono così dolci quando toccano il viso o le mani. Antonello stava disteso sul suo letto, immobile, senza parlare. S'udiva di tratto in tratto garrire una rondine. - Per questo, forse - domandai a Oddo - Massimilla entra nel monastero? - Non so; non credo - egli rispose. - È già passato molto tempo. Ma, certo, la vita per lei in questa casa dev'essere più incresciosa che per le altre. Io sempre penso ch'ella debba credersi disseccata ed estinta come le piante degli erbarii che Simonetto le lasciò in testamento. Ah quell'abito nuziale rimasto chiuso in un armadio come una reliquia! Ci pensi tu? Quella spoglia bianca che omai deve aver preso l'odore delle piante secche! Ci pensi tu? Credi tu che la Morte possa avere nel mondo un museo più triste di quello che Massimilla custodisce? Io qualche volta sono ingiusto; qualche volta non so dissimulare una specie d'amarezza che mi sale dal cuore quando penso che Massimilla se ne va, ci abbandona. Mi sembra che alla sua partenza debba seguire il dissolvimento finale; mi sembra che un turbine ci debba dissipare e disperdere tutti, come un mucchio di stracci. Ella intanto cerca di salvarsi. Ma io sono ingiusto. Veramente, ella è forse qui la più infelice. S'è avverato per lei quel che io le dicevo ridendo. Ella crede d'esser divenuta simile ai fiori e alle foglie degli erbarii. Per rivivere, per riavere un'illusione di vita, ella si sforza di comunicare con le cose vive. Non l'hai tu veduta quando affonda le mani nella verzura e resta in quell'atto per sentirsi scorrere su la pelle i bruchi? Non sai tu ch'ella passa ore ed ore nel giardino a cercare le bestiole e a farsele amiche? In questo ella è, come tu dicesti, un esemplare di perfezione francescana. Ma che diresti se tu sapessi che questo non è se non un desiderio angoscioso di sentire la vita? Io l'ho compreso; io solo forse l'ho compreso.... Egli proferì le ultime parole a bassa voce, quasi che le dicesse soltanto a sé medesimo; e poi tacque, forse per considerare entro di sé la creatura della sua imaginazione conturbata. - Era un sogno d'infermo quel suo? O la Massimilla vivente rispondeva in realtà a quella derelitta custode di piante morte? - Io non m'indugiai in questo dubbio; ma volli assaporare tutta la poesia che le strane imagini diffondevano nell'ombra della stanza ove ora giungeva il crepitío fioco della pioggia svegliando nelle mie narici il bisogno di aspirare il sentor della terra inumidita. Mi levai per aprire un poco la vetrata più vicina: l'odor terrestre entrò. - Nei primi mesi, dopo la morte di Simonetto - riprese a dire Oddo - ella aveva molta cura degli erbarii. Passava lunghe ore nella camera ov'erano riposti, a esaminare i fogli e a leggere le schede. E spesso io le tenevo compagnia, tanto ella mi faceva pena. Un giorno - ricordo - la sorpresi mentre apriva l'armadio dove ella conserva l'abito nuziale, nella camera stessa. Un altro giorno - ricordo - di primavera, ella m'apparve tutta commossa perché un bulbo di narcisso aveva germogliato.... È strano; non è vero, Claudio? Ho veduto quel bulbo rimettere ancora una volta, nella primavera scorsa. E questa volta? Non ho chiesto a Massimilla.... Vuoi che andiamo a vedere? Egli si levò in piedi, come preso da un'impazienza febrile; e diede qualche passo verso l'uscio. Ma Antonello, che era ancor disteso sui suoi guanciali, anche si levò col medesimo aspetto - vivo nella mia memoria - con cui egli aveva annunziato il passaggio della lugubre portantina; e, mettendosi l'indice su la bocca per significarci di tacere, si chinò verso la parete guardante la loggia, e stette a origliare. Nel silenzio non s'udiva se non lo strèpere eguale e dolce del tiepido nembo primaverile sul giardino chiuso. - Non uscite! - bisbigliò Antonello. Non chiedemmo il perché, tanto era palese sul viso emaciato e contratto di lui la causa di quel timore. E, come ci giunse un suono di voci e di passi, Oddo s'accostò all'uscio e l'aprì un poco per intraguardare. Io anche m'accostai; e, stando alle sue spalle, scorsi per la fenditura Anatolia che conduceva al suo braccio la madre, seguíta da una delle due donne grige, nella loggia coperta. La principessa Aldoina camminava a fatica, appoggiandosi alla figlia con tutto il suo peso, vestita stranamente d'un abito pomposo a lungo strascico, ornata di falsi gioielli, pallida ed enorme, con il capo alzato e un poco piegato in dietro, con gli occhi socchiusi, con un indescrivibile sorriso errante su le labbra appassite, quasi che il romore della pioggia sul lastrico del cortile fosse per lei un susurro d'omaggio in mezzo a cui ella passasse regina andando verso il suo trono. E tutta la luce della pietà dolorosa era nel volto filiale che si chinava verso la demente. Come l'apparizione si dileguò, rimanemmo per qualche attimo sospesi in un'angoscia affettuosa. E, mentre udivasi ancora il suono dei passi tristi, io rivedevo entro di me con una straordinaria evidenza l'effigie della vergine atteggiata di pietà e di dolore, quale erami apparsa nella sua luce vera e suprema. E mi sorgeva dall'intimo un sentimento quasi religioso come dinnanzi a un mistero sacro, poiché nessuno degli atti anteriori compiuti dalla pura consolatrice al mio conspetto aveva il pregio e la significazione di quello compiuto da lei inconscia sotto il mio sguardo nascosto. Ella attingeva d'un tratto nella mia anima un'altitudine sublime, irradiata da tutto lo splendore della sua bellezza morale, sollevata da tutta la forza della sua volontà eroica. Contemplata così, fuor d'ogni attenenza con me medesimo, nel segreto della sua propria vita a cui io era estraneo, nell'assoluta sincerità del suo sentimento, ella assumeva una specie ideale che nel mio spirito l'accomunava alle intrepide creature fatte immortali dai poeti, vittime divine d'un sacrificio volontario. Antigone conducente per mano il vecchio padre cieco o prostrata a ricoprire di polvere il cadavere fraterno non era più tenera e più forte di lei, non aveva una fronte più pura e un cuore più largo. In quella sorta di languido tedio, in quell'ombra snervante ove un infermo approfondiva il suo male mentre una voce inquieta evocava l'imagine d'un vano supplizio tra una flora defunta, la consolatrice apparendo dava d'un tratto al mio spirito una sollevazione di vita e, come una subita luce percotendo la parete oscura fa scintillar nel trofeo la spada immobile, traeva un gran lampo dalla mia volontà riposta. V'era in lei una virtù che avrebbe potuto produrre un frutto portentoso. La sua sostanza avrebbe potuto nutrire un germe sovrumano. Ella era veramente la «nutrice» ma quale appariva la vergine Antigone al cieco Edipo esule ed errante. Un'immensa moltitudine di creature avide avrebbe potuto abbeverarsi nella sua tenerezza senza esaurirla. Non conservava ella sola, come l'eroina antica, in sé, nel suo gran cuore, la fiamma geniale mancata al focolare di sua stirpe moribonda? Non era ella unicamente l'anima della triste casa? Massimilla nel suo orto arido, Violante nella sua nube di profumi impallidivano dinnanzi a quella loro sorella che camminava con sì fermo passo e con sì dolce sorriso nella via dell'immolazione. E io pensai a Colui che doveva venire. Eravamo seduti, io e il principe Luzio, presso un balcone aperto, nell'ora pomeridiana in cui l'ardenza già troppo forte di quel maggio morente cominciava a temperarsi e le nuvole pellegrine stampavano qualche vasta ombra cerulea su la valle accesa. Poiché ricorreva l'anniversario della morte di Re Ferdinando, il principe fedele a commemorare il suo lutto evocava nel mio spirito tutte le tristezze e tutti gli orrori della lunga agonia regale; e là, su i profumi salienti dal giardino chiuso, i lugubri fantasmi si succedevano senza tregua risvegliati dalla voce senile. Il muto viaggio su per l'alture di Ariano e nel Vallo di Bovino tra bufere di neve; i funesti presagi che si levavano a ogni passo; i primi segni del male apparsi in una sera gelida mentre il Re assiderato arrancava su i ghiacci che inasprivano l'erta; la sua smania ansiosa di proseguir nel cammino senza indugi come se il destino inesorabile lo incalzasse; lo spaventevole pallore di cui tingevasi all'improvviso in conspetto della folla tra le onoranze ch'egli presentiva estreme; le grida che gli strappava lo spasimo e che copriva il clamore della festa nuziale; il turbamento dei medici adunati intorno al suo letto dubitanti sotto lo sguardo ostile e sospettoso della Regina; il suo scoppio di lagrime al primo entrare della duchessa di Calabria, freschissimo fiore di giovinezza, nella camera già infetta dalle esalazioni del morbo, dov'egli giaceva invecchiato e quasi inebetito dalle sofferenze; poi il tragico addio da lui rivolto alla sua propria statua mentre gli infermieri lo trasportavano in un'altra camera; poi l'imbarco su la nave, cerimonia triste come un mortorio, e il suo lugubre motto quando la barella fu discesa nel boccaporto allargato a colpi di scure; poi l'arrivo a Caserta, il rapido aggravamento, la dissoluzione putrida del suo corpo nel gran letto circondato d'imagini sacre, di reliquie miracolose, di crocefissi, di lampade, di ceri; infine la pompa del Viatico, il sollevarsi del Re su i guanciali irriconoscibile fra il terrore degli astanti, le ultime parole, la cristiana serenità della morte, la disputa tra la Regina e i dottori per l'imbalsamazione del cadavere, l'assistenza dei soldati intorno alla bara addetti a nettar di continuo le innumerevoli piaghe purulente: tutte le tristezze e tutti gli orrori passavano nelle memorie. E io ascoltando pensavo al duca di Calabria singhiozzante in un angolo come una femminetta. «Ah, che bello e terribile sogno avrebbero potuto alimentare in lui giovine gli odori della morte, per quelle torbide settimane di primavera! In quali superbe e inebrianti meditazioni si sarebbe profondata la mia anima all'ombra dei vasti alberi, e come l'impetuosa agitazione constretta nei tronchi possenti mi sarebbe parsa piccola al confronto della mia!» Il principe Luzio narrava come un giorno il Duca di Calabria fosse entrato all'improvviso, tutto sbigottito e ansante, nella camera del padre infermo, ad annunziargli la cacciata del Granduca di Toscana, e con qual violenza di parole il Re avesse giudicata la pusillanimità del parente. - Ah, se Ferdinando non fosse morto! - esclamò il vecchio, con un gesto quasi minaccioso. - Poche ore prima di spirare, egli diceva: «Mi è stata offerta la corona d'Italia....» Non pensi tu, Claudio, che un Borbone la porterebbe oggi sul capo? - Forse - io risposi con grande rispetto. - E, se così fosse, ai primi onori del Regno dovrebbe essere esaltato il Principe di Castromitrano. Lasciate che io vi dica quanto ammiri la vostra dignità e la vostra fede. Voi siete dei pochissimi, tra i nostri pari, che abbiano mantenuto intatto e intenso il sentimento della virtù di stirpe. Piuttosto che rinunziare al privilegio e prendere un'attitudine disconveniente al vostro orgoglio legittimo, piuttosto che apparire il superstite di voi medesimo, vi siete ritratto dal mondo, ma dopo averlo abbagliato con un supremo splendore di magnificenza; e siete venuto in solitudine ad aspettar l'evento che il Destino riserba alla vostra Casa. La sventura vi ha trattato da grande; poiché v'è anche un privilegio di dolore, e il vostro fu ben riconosciuto. Il volto paterno del principe s'era fatto grave e attento. La venerazione che la sua bella canizie inspirava alla mia anima era assai più profonda di quella manifestata dalla mia parola; ma vi s'aggiungeva una tenerezza di qualità così pura che non poteva essermi data se non da una presenza feminile. Sentii infatti lo spirito di Anatolia. Apparsa su la soglia della porta che si apriva in fondo alla stanza, ella era passata in silenzio lungo la parete e s'era seduta nell'ombra di un angolo, bianca, misteriosa e propizia come un Genio familiare. - Lontano dal mondo, - io soggiunsi - chiuso in una nube così densa di tristezza, voi avete potuto nutrire fino a oggi la speranza in una risurrezione delle cose che sono morte; ed ho ancora nell'orecchio la profezia della vostra fede. Certo, le cose che sono morte risorgeranno; ma trasformate. Se voi voleste per un sol momento affacciarvi su lo spettacolo che dà oggi il mondo, sentireste il vostro sogno antico cadervi dall'anima come una foglia arida e vi parrebbe inutile per Francesco di Borbone il ricupero del suo piccolo Stato e pur l'acquisto d'Italia. Sia un Borbone o sia un Sabaudo sul trono, il Re è pur sempre assente; poiché non si chiama Re un uomo il quale, essendosi sottomesso alla volontà dei molti nell'accettare un officio ben determinato e angusto, si umilia a compierlo con la diligenza e la modestia di un publico scriba che la tema d'esser licenziato aguzzi senza tregua. Non dico il vero? Né diversamente saprebbe regnare Francesco. Subito dopo la morte del padre, non scrisse egli di suo pugno un editto per ristabilire gli effetti della Costituzione abolita? e non fu Alessandro Nunziante quegli che impedì fosse promulgato? Ma richiamate alla vostra memoria la lamentosa proclamazione dell'8 dicembre, data dalle casematte di Gaeta. È quello il linguaggio di un Re, e d'un Re vinto? Avendo ascoltato in silenzio, con le sopracciglia contratte, il principe Luzio disse non senza un'ombra di severità: - Si vede che è in te il sangue di Gian Paolo Cantelmo. - È in me il sangue di tutti i miei maggiori. Ah, caro padre (lasciate che io vi dia questo nome!), so bene quanto vi riesca dolorosa la rinunzia a un sogno di giustizia, innanzi a cui tanti e tanti anni è rimasta accesa la fiamma della vostra fede; ma io voglio dirvi che per noi e per i nostri pari non v'è omai salvezza se non a patto di sostituire il proposito energico all'inutile speranza. Sopportate che io vi parli senza ambagi. È inutile sperare che si levi d'improvviso un qualche bollore eroico nel sangue stagnante di San Luigi. Io ho visitato l'Esule, di recente: egli è pieno d'una placida rassegnazione, dedito alla beneficenza e alla preghiera, memore del suo brevissimo regno come d'un lontano sogno angoscioso. La vostra profezia trarrebbe dalle sue labbra un sorriso incredulo e mite: nulla più. Se il suo spirito migra qualche volta verso il Golfo, non forse Capodimonte ma la cima dei Camaldoli è la sua mèta. Egli s'è assuefatto a una vita modesta e pia: non vede più brillare la corona nelle sue notti. Lasciamolo placidamente dormire! Il principe fedele aveva chinato il capo sul petto; e io vedevo nella sua fronte china le rughe approfondirsi come solchi pieni di pensiero. - Non per lui soltanto è opaco il fato. Il crepuscolo dei Re è tutto cinereo, cieco d'ogni splendore. Spingete lo sguardo pur oltre i paesi latini. All'ombra di troni posticci vedrete falsi monarchi compiere con esattezza le loro funzioni publiche in aspetto di automi o attendere a coltivar le loro manìe puerili e i loro vizii mediocri. Il più potente, il padrone di più vaste turbe, corroso nei suoi muscoli erculei dal tarlo del sospetto, si consuma solo in una cupa misantropia, non avendo nemmeno il gusto di contrapporre alle piccole formule chimiche dei suoi ribelli una qualche magnifica strage ad arme bianca per irrigare e concimare le sue terre isterilite. V'ha però un'anima veramente regale, e voi forse avete potuto considerarla da presso: è della stirpe di Maria Sofia. Quel Wittelsbach mi attrae per l'immensità del suo orgoglio e della sua tristezza. I suoi sforzi per rendere la sua vita conforme al suo sogno hanno una violenza disperata. Qualunque contatto umano lo fa fremere di disgusto e di collera; qualunque gioia gli sembra vile se non sia quella che egli stesso imagina. Immune da ogni tossico d'amore, ostile a tutti gli intrusi, per molti anni egli non ha comunicato se non con i fulgidi eroi che un creatore di bellezza gli ha dato a compagni in regioni supraterrestri. Nel più profondo dei fiumi musicali egli estingue la sua sete angosciosa del Divino, e poi ascende alle sue dimore solitarie ove sul mistero delle montagne e dei laghi il suo spirito crea l'inviolabile regno che solo egli vuol regnare. Per questo sentimento infinito della solitudine, per questa facoltà di poter respirare su le più alte e più deserte cime, per questa consapevolezza d'essere unico e intangibile nella vita, Luigi di Baviera è veramente un Re; ma Re di sé medesimo e del suo sogno. Egli è incapace di imprimere la sua volontà su le moltitudini e di curvarle sotto il giogo della sua Idea; egli è incapace di ridurre in atto la sua potenza interiore. Nel tempo medesimo egli appare sublime e puerile. Quando i suoi Bavari si battevano con i Prussiani, egli era ben lungi dal campo di battaglia: nascosto in una delle sue isolette lacustri, obliava l'onta sotto uno di quei ridicoli travestimenti ch'egli usa per favorire le sue belle illusioni. Ah, meglio sarebbe per lui, piuttosto che frapporre tra la sua maestà e i suoi ministri un paravento, meglio sarebbe raggiungere alfine il meraviglioso impero notturno cantato dal suo Poeta! È incredibile ch'egli non si sia già partito dal mondo, trascinato dal volo delle sue chimere.... Il principe teneva ancora la fronte china, in un'attitudine così grave che pur nella foga del dire io mi sentivo premere il cuore dalla tema d'averlo addolorato; e un'ansietà filiale m'invase, di consolarlo, di risollevare il suo bel capo candido, di vedergli brillare negli occhi l'insolita gioia. La presenza di Anatolia mi comunicava non so quale ardore generoso e quasi un bisogno di rivelare quanto eravi in me di più superbo e di più forte. Ella era immobile e tacita nell'ombra, come un simulacro; ma la sua attenzione m'irradiava l'anima, come un fascio di luce. - Voi vedete, mio caro padre - io ripresi a dire, senza poter frenare i palpiti che mi sembravano ripercuotersi nella voce - voi vedete che da per tutto le antiche regalità legittime declinano e che la Folla sta per inghiottirle nei suoi gorghi melmosi. Veramente esse non meritano altra sorte! E non le regalità soltanto, ma tutte le cose grandi e nobili e belle, tutte le idealità sovrane che furono un tempo la gloria dell'Uomo pugnace e dominatore, tutte sono sul punto di scomparire nell'immensa putredine che fluttua e si solleva. Io non vi dirò fin dove giunga l'ignominia, perchè dovrei usar parole che offenderebbero il vostro orecchio; e, dopo, converrebbe purificar l'aria con qualche granello d'incenso. Io mi son partito dalla città, soffocato dal disgusto. Ma ora penso al dissolvimento quasi con giubilo. Quando tutto sarà profanato, quando tutti gli altari del Pensiero e della Bellezza saranno abbattuti, quando tutte le urne delle essenze ideali saranno infrante, quando la vita comune sarà discesa a un tal limite di degradazione che sembri impossibile sorpassarlo, quando nella grande oscurità si sarà spenta pur l'ultima fiaccola fumosa, allora la Folla si arresterà presa da un pànico ben più tremendo di quanti mai squassarono la sua anima miserabile; e, mancata a un tratto la frenesia che l'accecava, ella si sentirà perduta nel suo deserto ingombro di rovine, non vedendo innanzi a sé alcuna via e alcuna luce. Allora scenderà su lei la necessità degli Eroi; ed ella invocherà le verghe ferree che dovranno novamente disciplinarla. Ebbene, caro padre, io penso che questi Eroi, che questi nuovi Re della terra debbano sorgere dalla nostra razza e che fin da oggi tutte le nostre energie debbano concorrere a prepararne l'avvento prossimo o lontano. Ecco la mia fede. Il principe aveva sollevato la fronte; e mi guardava con occhi intenti e un poco attoniti, quasi che io gli apparissi in un aspetto inopinato. Ma una vivacità insolita, che rianimava tutta la sua persona, mi diceva com'egli fosse già tocco dal mio ardore. - Ho vissuto alcuni anni in Roma - continuai, con una confidenza più sicura - in quella terza Roma che doveva rappresentare «l'Amore indomato del sangue latino alla terra latina» e raggiare dalle sue sommità la luce oltremirabile di un Ideale novissimo. Sono stato testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. E ho compreso l'alto simbolo che si cela nell'atto di quel conquistatore asiatico, il quale gittò cinque miriadi di teste umane nei fondamenti di Samarcanda volendo instituirla capitale. Non credete voi che il savio tiranno volesse significare la necessità delle crude recisioni nel punto di dar principio a un ordine veramente nuovo di cose? Bisognava immolare e poi gittar nei fondamenti della terza Roma gli uomini chiamati liberatori e, seguendo l'antico uso funerale, anche porre ai piedi loro e ai fianchi loro e tra le loro mani liberatrici le cose che essi amarono ed ebbero più familiari, e divellere e trascinar dai vertici delle montagne i più gravi massi di granito per chiudere in eterno le sepolture profonde. Ma non mai si videro in terra vite più tenaci e più pestifere! Primieramente dunque, caro padre, in Roma ho appreso questo: - Il naviglio dei Mille salpò da Quarto sol per ottenere che l'arte del baratto fosse protetta dallo Stato. - Pur tuttavia, tra lo schiamazzo dei trafficatori, ho potuto intendere la voce misteriosa e remota che persiste quivi in tutti i sassi come nei nicchi marini; e allo spettacolo sublime dell'Agro ho potuto consolarmi d'ogni disgusto. Ah, padre, chi potrà mai disperare delle sorti del Mondo finchè Roma sia sotto i cieli? Quando io la penso e l'adoro, non so vederla se non nell'atto in cui ella fu effigiata su la medaglia di Nerva: col timone fra le mani. Quando io la penso e l'adoro, non so specificare la sua virtù se non con la parola di Dante: «in ogni generazione di cose, quella è ottima che è massime Una». E il suo principio di unità, come già fu, dovrà ancor essere adunatore ordinatore e conservatore di tutto ciò che è buono e pieghevole all'ordine, nel Mondo. Le similitudini dantesche delle glebe e delle fiamme ben le si convengono, potendosi le prime concepire come formanti una base unica e le seconde come riunite in un solo e medesimo apice. Fermamente credo che la più gran somma di dominazione futura sarà appunto quella che avrà in Roma la sua base e il suo apice; poichè io Latino mi glorio d'aver posto a principio della mia fede la verità mistica enunciata dal Poeta: «Non è dubbio che la Natura abbia disposto nel mondo un luogo atto all'universale imperio; e questo è Roma». Ora, per qual misterioso concorso di sangui, da qual vasta esperienza di culture, in qual propizio accordo di circostanze sorgerà il nuovo Re di Roma? La bella febbre, che nel deserto laziale aveva infervorato le mie meditazioni fino all'ebrezza, si riaccendeva nelle mie vene; e i grandi fantasmi già espressi dal suolo sacro mi rioccupavano lo spirito in tumulto; e tutte le speranze generate dal mio orgoglio violento su quella solitudine memore della più sanguigna fra le tragedie umane, tutte si risollevavano e si riagitavano in confuso, dandomi un'ansia che a pena io poteva sostenere. L'aspetto del vecchio venerabile assumeva per me una solennità più grave, poichè in quell'ora io considerava in lui il depositario della virtù che sul tronco secolare di sua stirpe erasi dischiusa alla luce della gloria in magnifiche forme; e a lui, già inclinato verso il sepolcro e reso veggente dal dolore, io stava per dimostrare come a un giudice i diritti del mio sogno ambizioso e per chiedere come a un augure il buono auspicio e per proporre come al mio pari l'alleanza che m'era necessaria. La muta presenza della vergine nell'ombra aumentava quella mia ansia, poiché ella veracemente m'appariva come la destinata a divenir per l'amore «Colei che propaga e perpetua le idealità di una stirpe favorita dai Cieli». Io non osava rivolgermi verso di lei, tanto sembravami sacro in quel punto il mistero della sua verginità; ma si definiva in me l'imagine indistinta degli occulti tesori suscitatami alcuna volta da uno straordinario lume intraveduto nel fondo de' suoi occhi trasparenti; e, pur senza rivolgermi, io sentivo palpitare in quel lembo d'ombra una specie di animata ricchezza, una viva forma carica d'un pregio inestimabile, non so che d'infinitamente augusto e arcano come le sostanze divine custodite sotto i veli nei penetrali dei templi. - Voi siete, con me, convinto - soggiunsi - come ogni eccellenza del tipo umano sia l'effetto di una virtù iniziale che per innumerevoli gradi, d'elezione in elezione, giunge alla sua intensità massima e si manifesta ultimamente nella progenie col favore delle congiunture temporanee. Il valor del Sangue non è soltanto vantato dal nostro orgoglio patrizio, ma è pur anche riconosciuto dalla più severa dottrina. Il più alto esemplare di coscienza non potrà apparire se non alla cima di una stirpe che si sia elevata nel tempo per un'accumulazione continua di forze e di opere: alla cima di una stirpe in cui sieno nati e si sieno conservati per un lungo ordine di secoli i sogni più belli, i sentimenti più gagliardi, i pensieri più nobili, i voleri più imperiosi. Considerate ora una gente di remotissima origine regale, fiorita al sole latino in una terra felice rigata dai ruscelli di una nova poesia. Traspiantatasi in Italia, ella vigoreggia con tal rigoglio che in breve tempo nessun'altra può sostenerne il paragone. «Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro» ha sentenziato il Vinci. E quella gente sembra aver posto a principio della sua grandezza una sentenza anche più ardua: «Tristo è quel figliuolo che non avanza il padre suo». Per uno sforzo concorde e ininterrotto, di genitura in genitura ella va elevandosi verso le superiori apparizioni della vita. In tempi di cieca ira, in cui la ragione non s'affida se non all'arme, ella già sembra comprendere «che quegli uomini, che sopra gli altri hanno vigore di intelletto, sono degli altri per natura signori». E fin dall'inizio la sua disciplina ha un carattere intellettivo e par dettata da Dante, consistendo nel ridurre in atto sempre tutta la potenza dell'intelletto possibile, in prima a speculare e quindi per questo ad operare. Tanto negli offici più gravi, quanto su i campi più sanguinosi, quanto nelle feste più liberali, ovunque ella primeggia: ottima egualmente nel capitanare gli eserciti, nel governare gli stati, nel condurre le ambascerie, nel proteggere gli artefici e i saggi, nell'erigere i palazzi e le chiese. A tutta la vita italiana nelle sue più diverse forme ella si mescola; in ogni più fresca fonte di cultura ella s'immerge. Vivere è per lei affermarsi e accrescersi di continuo, è lottare e vincere di continuo: vivere è per lei predominare. Un formidabile istinto di dominio la scaglia innanzi senza tregua, mentre un lucido e sicuro pensiero dirige l'impeto durevole. E sempre - come quelli arcieri prudenti che il Machiavelli dà in esempio - ella pone la mira assai più alto che il luogo destinato. Tanto i suoi fatti sono insigni che i maggiori poeti ne perpetuano la fama, e gli scrittori d'istorie li paragonano a quelli dei capitani antichi e li arrecano ad esempio dei venturi. Tuttavia sembra che la sua virtù non siasi ancor manifestata intera, non abbia ancora attinto l'altezza insuperabile; sembra che le sue energie accumulate debbano, domani o fra un secolo o nel tempo indefinito, espandersi in una suprema apparizione... - Cave adsum! - interruppe il principe sorridendo d'un magnifico sorriso. - Non è forse l'impresa di cotesta tua gente? - Ella potrebbe anche portar l'impresa dei Montaga - io risposi pronto. - Sub se omnia. Il principe s'inchinò con un atto che valeva da solo a dimostrare come la mia risposta non fosse una semplice cortesia, ma bene si addicesse alla dignità del suo gran nome. Egli mi riappariva simile all'imagine che di lui era rimasta nella mia memoria al tempo della puerizia: bellissimo esemplare di una superiore umanità, manifestante in ogni suo atto la sua essenza diversa, il sentimento della sua assoluta separazione dalla moltitudine, dai comuni doveri, dalle comuni virtù. Sembravami ch'egli avesse potuto scuotere dalla sua anima il peso della sciagura che l'accasciava e risollevarsi in tutta la sua prestanza virile, quasi assumendo la qualità meravigliosa delle sue mani: di quelle sue mani belle e pure, come rese inalterabili da un balsamo, ministre superstiti di una liberalità non paragonabile se non all'antica «che per piccoli servigi amava ricompensar grandemente». Volgeva l'ultima ora della luce; e dai cieli accesi l'annunziazione dell'Estate discendeva sul giardino gentilizio ove tra l'odore austero dei bossi centenarii le statue - pallide e pur vigili come memorie in un'anima fedele - evocavano con i loro gesti i fantasmi dell'abolita grandezza. Ma di là dal claustro si apriva l'immensa corona di rocce foggiata dal fuoco primordiale, così aspra e superba che sembrava degna di sostener su ciascuna delle sue punte un Prometeo incatenato. Quelle punte aveva io veduto fiammeggiare nel cielo della prima sera come piropi, d'un lume incredibile, e la più alta restar di fiamma su l'ombra comune, acutissima ferire il cielo simile al grido della passione senza speranza. Solo io era in quel crepuscolo remoto, e le tre principesse misteriose erano lungi nel loro chiuso giardino, e la mia sorte era ancor estranea alle sorti loro. Ma ecco, in una simigliante congiuntura di cose, stava per effettuarsi il fato presentito in quella prima agitazione del mio desiderio; io stava per proferire una parola solenne e irrevocabile. - Era io dunque escito d'ogni perplessità? Fra le tre beatrici che in quella lontana sera io aveva creduto intraveder nell'atto di ricevere su le braccia protese il mio dono primaverile, una alfine era da me eletta per l'alleanza necessaria? E io avrei dunque proferito il suo nome al conspetto del padre? - Un nuovo turbamento m'invase; e mi parve che Anatolia nell'ombra non fosse più sola, ma che le sorelle fossero venute in silenzio a sedersi presso di lei e che i loro occhi fossero sopra di me intentissimi. Come mi volsi, scorsi nell'ombra la figura immobile e bianca; e ogni altra imagine si disperse, e ogni vana inquietudine cadde. Ella era il simbolo vivente della securità, era la Vegliante e la Tutelare. Con la sua forza e la sua pazienza, al lume del suo proprio sorriso, ella aveva saputo convertire il dolore in un'armatura adamantina che la rendeva invincibile. Ella era fatta per custodire, per alimentare e per difendere sino alla morte quel ch'era commesso alla sua fede. E io la vidi un'altra volta - nel mio sogno - vegliare con la pura fronte raggiante di presagi sul figlio del mio sangue e della mia anima. Allora dalle radici stesse della mia sostanza - là dove dorme la virtù indistruttibile degli avi - sorse e andò verso l'eletta la volontà di crear quell'Uno in cui dovevano trasmettersi tutte le ricchezze ideali della mia gente e le mie proprie conquiste e le perfezioni materne. Profondissimo mi divenne allora il sentimento di dipendenza originaria che legava il mio essere attuale agli antenati più lontani; e, come la cima dell'albero compendia in sé tutta la vita del tronco ramoso fino alle estreme radici, io sentii vivere in me tutta la stirpe, che la morte non aveva distrutta se non nelle specie corporee, nelle forme transitorie delle generazioni. E la pienezza e la veemenza di quella vita parevano abolire i limiti del mio natural potere. - Voi avete riconosciuto in me dianzi, non senza un'ombra di severità, il discendente di Gian Paolo Cantelmo - io dissi al principe sorridendo. - Bisogna ch'io confessi che nella mia Casa gli esempi di disobbedienza e di ribellione al Re non sono rari. Ma v'è il Leon rosso che li giustifica; e voi certo non ignorate la patente ch'ebbero i Cantelmi da Carlo II d'Inghilterra. Di antichissimo sangue regio, essi non hanno mai potuto facilmente rassegnarsi a non considerare il Re come un loro eguale. Sembra, anzi, che essi non combattano mai altro avversario con tanto ardore con quanto combattono il Re. E, se Gian Paolo turba i sonni a Ferdinando d'Aragona e umilia Alfonso, Giacomo I e Menappo abbattono in Benevento Manfredi, Giacomo VIII guerreggia con fortuna contro Ladislao a fianco di Braccio da Montone e dello Sforza, Antonio si oppone a Renato d'Angiò. E in ogni Cantelmo una tendenza originale a far parte da sé solo, a separarsi, a ben determinar la persona e la potestà proprie. Sembra che ognuno fondi la concezione della sua dignità sul fermissimo convincimento «che l'essere uno è radice dell'essere buono e che ciò che è buono è tale perchè consiste in uno». In questo io riconosco con gioia uno dei caratteri essenziali del dominatore a venire: del Monarca, del Despota. Ma v'ha anche un'altra singolarità che mi conforta, ed è la gran somma delle signorie raccolta nelle mani dei Cantelmi in terra latina. Si può dire che, in diversi tempi e partitamente, essi abbiano tenuto il governo di tutta Italia. Giacomo I è ambasciatore di pace alla Repubblica di Genova, è Vicario in Lombardia, Capitan generale nella Marca d'Ancona, Viceré negli Abruzzi; Giacomo II è Vicario e Podestà di Firenze; Bonaventura VIII, Viceré di Sicilia; Rostaino VII, Capitan generale della Serenissima, Senatore di Roma.... Ovunque essi esercitano l'imperio e, nell'esperimento dei popoli diversi, apprendono a «ben conoscere come gli uomini s'abbino a guadagnare o perdere». Ovunque anche combattono e lasciano la vita nell'atto di compiere un qualche prodigio: «il buon Cantelmo», immortale nel verso del Tasso, tinge di suo sangue regio le mura di Gerusalemme; Giacomo II muore in pro dei Fiorentini contro Castruccio Castracane; il primo duca di Sora Nicolò muore alla difesa di Costantinopoli con Costantino Paleologo; Ascanio muore nelle acque di Lepanto a fianco di Don Giovanni d'Austria; Bonaventura VIII è da Carlo V reputato degno della difesa di tutto l'Impero, e di lui dice l'Imperatore che lo eleggerebbe a suo campione se dovesse rischiar la corona in una giostra; il grande Andrea dà l'esempio straordinario di una vita intesa tutta a combattere senza mai tregua, dalla primissima giovinezza fino all'ultimo respiro.... Ecco, veramente, il tipo più compiuto che sia escito fino ad oggi dalla mia razza. Andrea è uno dei più alti eroi della volontà e della constrizione. Tralasciamo il novero delle sue fortune. In Italia, in Germania, in Fiandra, in Francia, in Ispagna, quasi innumerevoli sono le città e i luoghi da lui acquistati e aggiunti al Cattolico Impero, gli assedii posti e sostenuti. Egli è il Poliorcete per eccellenza, negli stratagemmi maestro fecondo quant'altri mai, ardentissimo e prudentissimo nel tempo medesimo, «scorgendosi in lui» come dice uno dei suoi storici «unite tutte quelle doti e qualità ch'in altri più illustri Capitani separatamente osservate si sono». Ma quel che ai miei occhi lo innalza sopra tutti è l'inaudito rigore della disciplina a cui egli sottoponeva sé medesimo e le sue milizie. Certi suoi tratti di severità m'inebriano più che la vista delle bandiere da lui tolte ai nemici. Comandando sempre milizie senza paga e male in arnese, egli riesce ad averle in pugno pronte e diritte come una spada sola. Nessuno mai conobbe meglio di lui il modo d'imprimer sé stesso su la condotta altrui. Eloquente e nervoso nel discorso, egli preferisce pur sempre alla virtù della parola la diretta efficacia dell'esempio. Va sempre innanzi alle sue schiere, a piedi quando guida i fanti; dorme sempre vestito; non mangia e non beve se non quel che mangiano e bevono i suoi soldati; è il primo sempre all'assalto, l'ultimo a ritirarsi; coperto di ferite rifiuta di deporre l'armatura; sul campo della vittoria o nella città espugnata, non tocca mai bottino. E nella guerra delle Fiandre si rende così terribile che le madri, per ottenere obbedienza dai fanciulli, li spaventano col suo nome. Può un uomo determinar la sua propria effigie con un rilievo più schietto e più gagliardo? Escì mai da conio medaglia battuta con impronta più fiera? Nel suo secolo Andrea è soprannominato novello Epaminonda. Ebbene, anche in questo infaticabile guerriero risalta il carattere intellettuale della stirpe. Non pure egli è dottissimo nelle lingue, matematico insigne, maestro di architettura militare, scrittore di scienza bellica, ma è buon conoscitore e splendido proteggitore delle arti liberali. Eritio Puteano dedicandogli un'opera latina lo invoca Armorum gloria, Litterarum tutela. Cornelio Scheut d'Anversa offrendogli un suo libro di disegni capricciosi lo rappresenta Eroe cultor di eleganze fra le armi, Heros inter arma elegantias colens. Prosegue Andrea in questo la tradizion familiare, alla cui origine risplende inghirlandata Fanetta Cantelma, Dama di Romanino, poetante «con un certo furor divino» tra i lauri di Provenza in una Corte d'Amore. E non sembra siasi anche trasmessa in lui qualcuna delle attitudini prodigiose per cui Alessandro si eleva tra i discepoli del Vinci a Milano? Egli imagina novissime forme di fortificare; costruisce su la Mosa il celebre Forte chiamato a gloria del suo inventore il Forte Cantelmo; fabbrica armi strane che ai contemporanei paiono quasi magiche.... Non v'è qualche cosa di leonardesco in questi suoi ingegni, che ricorda Alessandro? Avevo proferito il nome di Colui che vivendo in continua comunione col mio spirito era da me tenuto come il Genio della stirpe destinato a risorgere un giorno su dal tronco superstite in un'apparizione di vita sublime. «O tu, sii quale devi essere». Sotto il suo sguardo e sotto il suo ammonimento erasi determinato in linee definitive il mio cómpito; ed ecco, nell'ora in cui stava per risolversi una grande cosa, egli ponevasi al mio fianco. Io l'aveva dinnanzi agli occhi vivo, come se la sua mano pallida e tirannica fosse poggiata allo spigolo del tavolo che m'era da canto e quivi posassero la statuetta di Pallade e la melagrana dalla foglia aguzza e dal fiore ardente. «O tu, sii quale devi essere». E un'altra figura giovenile, che sembrava il minor fratello di lui, gli si teneva di contro come un riflesso. - Alessandro ed Ercole! Ecco i due purpurei fiori succisi che due divini artefici, Leonardo e Ludovico, raccolsero e commutarono in indistruttibili essenze. Andrea Cantelmo quando morì aveva già manifestato tutte le sue energie ch'egli portava in sé; e la morte lo colse al limitare della vecchiezza, coperto di gloria, súbito dopo quell'assedio di Balaguer che fu la massima delle sue imprese eroiche. Ma questi due, affacciatisi alla vita con le mani colme di tutti i semi della speranza, avevano dinnanzi a loro ogni più vasta possibilità. Le loro teste giovenili parevano fatte per portar la corona regale, l'antica corona già portata dai padri. In un d'essi il Vinci divinava il futuro fondatore di un nuovo principato, il Tiranno trionfante che doveva imporre alle moltitudini il giogo di quella Scienza e di quella Bellezza a cui il grande maestro aveva iniziato il discepolo prediletto. Ma la sorte volle differire il compimento della profezia. Entrambi gittarono la loro vita nel primo impeto, poiché un troppo veemente ardore li divorava: Ercole nelle arene del Po contro gli Schiavoni; Alessandro su le rive del Taro alla battaglia di Fornovo. Ricordate i versi con cui l'Ariosto celebra il bellissimo figliuolo di Sigismondo Cantelmo? Il più ardito garzon che di sua etade Troppo la sua morte fu crudele! Nell'incursione temeraria fatto prigioniero, ebbe il capo tronco su lo scalmo d'un naviglio, che servì di ceppo, al conspetto del padre. Imagino che il sangue irruppe dal taglio come una fiamma e bruciò il fianco della galèa. Non imagino, anzi, ma vedo. Qual prodigiosa e terribile tempesta di giovinezza dovette esser quella che provocò il colpo di sprone, onde il cavallo fu lanciato a furia contro il riparo del nemico! Ah, caro padre, ho conosciuto anch'io qualcuna di tali tempeste e la sa il mio cavallo e la sanno le macerie della campagna di Roma... Certo, Ercole in quell'attimo si sentiva degno di stringere fra i suoi ginocchi la fiera alata che nacque dal sangue di Medusa. Cave adsum! Celebrandolo, l'Ariosto ha un verbo che da solo lo irraggia di gloria significando come l'audace morisse per non mancare al proposito tenuto da ogni Cantelmo: che è quel di persistere pur contro la peggior morte nel posto ove uno collochi sé riputandolo il più bello. Nell'assalto egli aveva al suo fianco un compagno. Come entrambi furono sopra al nemico, Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo. Egli restò, uno contro mille. E il divino Ludovico pone la sua figura bella e cruenta sul principio di un canto ove Bradamante fa prodigi con la sua lancia d'oro. Ma la morte di Alessandro somiglia quella di un semidio. A Fornovo, nel più forte della battaglia, scoppia un uragano e il Taro straripa con terribile violenza. Alessandro scompare d'improvviso, come uno di quelli antichissimi eroi ellenici che un turbine sollevava dalla terra assumendoli trasfigurati nel Cielo. Il suo corpo non si ritrova nè sul campo nè in altro luogo. Ma egli vive, vive nei secoli, d'una vita più intensa della nostra. Di lui non l'effigie soltanto ha tramandato sino a me il Vinci, ma la vita, la vera vita. Ah, caro padre, se voi aveste veduto una sola volta l'imagine non avreste potuto dimenticarla. È indimenticabile. Nessuna cosa al mondo ha per me un egual pregio, e nessun tesoro mai fu custodito con più appassionata gelosia. Chi mi ha dato la forza di sostenere una così lunga solitudine e una così dura constrizione? Chi ha infuso nel mio spirito, pur tra i più aspri rigori della disciplina quella specie di sobria ebrezza che fa sembrar leggero qualunque sforzo? Chi se non egli Alessandro? Egli rappresenta per me la potenza misteriosamente significativa dello Stile, non violabile da alcuno e neppur da me medesimo nella mia persona mai. Tutta la mia vita si svolge sotto il suo sguardo seguace; e, in verità, caro padre, chi resiste alla prova assidua di un tal fuoco non è degenere. «O tu, sii quale devi essere!» ecco il suo quotidiano ammonimento. Ma, mentre egli così m'incita ad integrarmi, anche mi tiene dinnanzi agli occhi la visione di un'esistenza superiore alla mia in dignità e in forza. E sempre io penso a Colui che deve venire. M'arrestai, sentendo che la mia voce si mutava, temendo che traboccasse a un tratto l'onda che mi riempiva il cuore. E così profondamente l'anima del vecchio comunicava con la mia, che in quel punto egli fece l'atto involontario di tendere verso di me le due mani. - Poichè è necessaria una volontà duplice a crear quest'Uno, che deve avanzare i suoi creatori, - io soggiunsi quasi a voce bassa, inclinandomi verso di lui - non potrei ambire a un'alleanza più alta di quella che mi darebbe il diritto di chiamarvi padre come vi chiamo... E, vinto dalla commozione, rimasi inclinato stringendo nelle mie le sue mani che tremavano, mentre egli mi sfiorava la fronte con le labbra senza dir parola. Ma udii nel silenzio, pur tra i palpiti del mio cuore e il respiro affannoso del padre, il lievissimo passo di Anatolia che usciva dalla stanza. - Andava ella a piangere in disparte? - La sua imagine, che avevo veduta immobile e bianca nell'ombra, scintillò nel mio cielo interiore come una costellazione di lacrime. - Andava ella a piangere sola? Forse ella stava per incontrare su la sua via le sorelle... - Quel dubbio mi turbò a dentro, d'improvviso. Il mio sguardo cadde sul cammeo che splendeva nella mano paterna. E, mentre saliva dal giardino chiuso il profumo della sera, mi si spandeva per l'anima un sentimento oscuro come di un fascino che s'addensasse intorno a me con la lentezza di quell'ombra crepuscolare. Quale intanto era il cuor di colei che stava per dipartirsi? In quali modi la sua mistica vita si disponeva intorno al ricordo dell'ora suprema segnata dallo stilo sul marmo luminoso? ME LVMEN, VOS VMBRA REGIT. Ella era forse tornata più d'una volta al piccolo cimitero dei tassi e degli anemoni; e novellamente forse aveva posto le sue gracili mani sul quadrante per patirne il calore; e forse aveva ripensato la mia esortazione. «Riscaldate le vostre mani al sole, immergetele nel sole, queste povere mani; perchè fra poco le terrete incrociate sul petto o nascoste sotto il grembiale di lana bruna, nell'ombra....» E più d'una volta forse, coperta con la palma la cifra indicatrice dell'ora divina, ella aveva atteso palpitando nel gran silenzio per veder l'ombra dello stilo attingere l'estremità dell'anulare come in quel giorno di sogno; e forse aveva pianto perché il prodigio d'amore non s'era rinnovato. SINE SOLE SILEO. Io congiungeva l'imagine della custode di erbarii fintami da Oddo e l'imagine di quella triste anima errante intorno all'orologio solare che aveva segnato per lei l'ora della beatitudine invano. E pensavo: «Se io possedessi la potenza di foggiarti un bel fato in quella guisa che l'artefice forma la cera obbediente, o tu che mi venisti incontro uscendo da un orto arido ove un voto funebre ti aveva chiusa, Massimilla, io così compirei con la morte la tua figura ideale, con l'opportuna morte io compirei la tua perfezione; poiché nessun'altra ora ti attende, in cui tu possa trovar qualche pregio, essendo tu giunta una volta in quella parte della vita, di là dalla quale non si può ire più per intendimento di ritornare. Io farei che, guidata dal divino ricordo, tu ritornassi al luogo ove in sogno io colsi i coronali anemoni per versarli sul tuo capo, e quivi tu ritrovassi presso il marmo orario l'attitudine armoniosa in che prima io ti lodai. E l'attimo in cui il punto d'ombra attingesse l'estremità dell'anulare, quello sarebbe della tua morte. Allora io medesimo, sotto l'immobile sguardo della cariatide prostrata, vorrei cavar la fossa per il tuo frale; e ti vorrei comporre come le gentili donne composero Beatrice nella visione di Dante, e coprirti anche la testa di quel loro velo. Ma non porrei la croce sul tuo sepolcro né altro segno pio; sì bene, per incidervi un epitaffio degno della tua gentilezza, evocherei l'ultimo figliuolo delle Grazie nato in Palestina come il tuo Sposo celeste: un cantore di fanciulle colpite da morte precoce, Meleagro di Gadara, ghirlandato di giacinti, dal flauto soave. - O Terra, universal madre, salute! Sii or tu leggera per questa vergine: tanto poco ella pesò su te! - » Così mi piaceva ornare il sentimento ch'ella m'inspirava e convertire in poesia la sua tristezza. - Il bulbo di narcisso nell'erbario ha germogliato per la terza volta? - le domandai d'improvviso un giorno, mentre eravamo su le acque del Saurgo in vicinanza della città morta. Ella si turbò tutta, e mi guardò con occhi quasi sbigottiti. - Come sapete? Io sorrisi e ripetei: - Ha dunque germogliato? - No, non più! - ella rispose chinando la faccia. Eravamo soli in una piccola scafa che io stesso guidava con l'unico remo. Violante, Anatolia e Oddo erano in altri battelli condotti dai navalestri. Il fiume era quivi così largo e lento che somigliava quasi uno stagno; e una innumerevole greggia di ninfee lo ricopriva. I grandi fiori candidi a foggia di rose galleggiavano tra le foglie lucide esalando un'umida fragranza che pareva posseder la virtù di dissetare. Quivi Simonetto aveva compiuto le sue erborazioni, nell'autunno micidiale. Io imaginavo la figura del giovine erborista chino su le acque ad esplorare il limo, nel tempo in cui le ninfee stavano per nascondersi. Il suo hortus siccus doveva certo contenere gli esemplari inerti di tutta quella flora acquatica diffusa intorno alla ruina. Come gli occhi di Massimilla seguivano i moti dei mio remo che a quando a quando fendevano qualche foglia o spezzavano qualche stelo, io dissi pianamente: - Pensate a Simonetto? Ella trasalì. - Come sapete? - mi chiese di nuovo, agitata, coprendosi di rossore. - So da Oddo.... - Ah! - fece ella senza dissimulare il suo rammarico per questa mia consapevolezza che pareva ferirla. - Oddo vi ha raccontato.... Ella si chiuse in un silenzio che io indovinavo quanto le fosse penoso. Fermai il remo per qualche istante; e il leggerissimo legno restò immobile tra quell'immenso candore di corolle vive. - Lo amavate molto? - domandai alla taciturna, con una dolcezza che forse le ricordò i nostri primi colloquii. - Come amo Oddo, come amo Antonello - rispose con un tremito nella voce, senza sollevare le palpebre. Dopo un intervallo, le domandai: - Entrate nel monastero per sacrificarvi alla sua memoria? - No, non per questo. Sarebbe omai troppo tardi.... - Perché, dunque? Ella non rispose. Ma io guardai le sue mani che si contraevano come per un bisogno di torcersi; e compresi tutta l'involontaria crudeltà della mia domanda inutile. - È vero che siete risoluta a partire fra pochi giorni? - soggiunsi quasi timidamente. - È vero. Le labbra le tremavano, impallidite. - Oddo e Anatolia vi accompagneranno? Ella accennò col capo, serrando la bocca come per contenere un singulto. - Perdonatemi, Massimilla, se vi ho fatto male - io le dissi con una commozione profonda, sentendo una pesante tristezza piombare su me d'improvviso. - Tacete, vi prego! - ella supplicò con una voce irriconoscibile. - Non mi fate piangere! Che penserebbero le sorelle? Non potrei nascondere le lacrime.... E mi sento soffocare. Il grido di Oddo ci richiamava, dalle rovine. Già Anatolia e Violante avevano messo il piede nella città morta. Un uomo con la sua scafa veniva verso di noi, giudicando forse l'indugio causato dalla mia inesperienza nello spingere il legno fra l'intrico delle ninfee. «Ah, sempre io porterò in me il rammarico d'averti perduta!» io dicevo in silenzio a colei che stava per dipartirsi. «Vorrei vederti composta nella perfezione della morte piuttosto che saperti diminuita in un'esistenza difforme a quella che il mio amore e la mia arte ti promettevano. E forse tu mi avresti indotto a esplorare qualche lontanissima regione del mio mondo, che senza di te rimarrà forse abbandonata e incolta....» Il naviglio scorreva su la nivea greggia lievemente: pel solco i calici e le foglie ondeggiavano lasciando scorgere nella limpidità cristallina la pallida selva degli steli, pallida e pigra come se la nutrisse il limo letèo. La ruina di Linturno, tutta abbracciata dalle acque e dai fiori, aveva nella sua secolare inerzia lapidea l'apparenza d'una congerie di grandi scheletri infranti. Non è nelle orbite dei teschi umani tanta vacuità esanime quanta era nei cavi di quelle pietre consunte, imbianchite come ossa dalle brume e dalle canicole. E io pensai che traghettavo una vergine morta. Poi tutto fu tocco dalla mia tristezza, in quel pomeriggio senza nube. Vagammo lungamente per l'antica ruina, cercando i vestigi della vita scomparsa. Erano vestigi incerti, che suscitavano discordi fantasmi. - Una teoria di giovinetti inghirlandati discendeva al fiume paterno cantando per offerirgli le intonse chiome crescenti? O una processione bianca di catecumeni, nutriti di latte e di miele come pargoli, vi discendeva per ricevere il battesimo? - Un'oscura leggenda di martiri diffondeva su i ruderi pagani una specie di santità dolorosa. «Martyris ossa jacent....» leggemmo su un frammento di sarcofago; e qua e là nelle sparse pietre effigiate ritrovammo gli emblemi e i simboli ambigui: l'aquila di Giove e il leone di Cibele assoggettati agli Evangelisti; le viti di Dioniso piegate ad esprimere il verbo del Salvatore; il cervo di Diana significante l'anima sitibonda; il paone di Era, la gloria dell'anima risorta. A quando a quando un colubro sbucava di tra i sassi e gli sterpi dileguandosi rapido come una saetta. Un uccello invisibile imitava stranamente lo strepito delle tabelle che indicano l'ora nel silenzio del Venerdì Santo. - E la vostra grande Madonna dov'è? - mi chiese Anatolia, ricordandosi delle mie lontane parole. Cercammo fra le macerie un tramite per giungere alla basilica diruta, che era all'estremità dell'isoletta, sul ramo del Saurgo contiguo alle rocce. - Forse l'acqua c'impedirà di passare - dissi io, scorgendo presso le mura un luccichio di specchi. Il fiume in fatti aveva inondato una parte della ruina sacra; e una selva acquatica vi ramificava in pace. Ma scoprimmo una breccia, e per quella potemmo penetrare nell'absida. Ciascuna delle tre sorelle entrando si fece il segno della croce, tra un gran frullo d'ali. V'era una frescura umida in una luce glauca e palpitante. L'absida e qualche pilastro della nave centrale, rimasti in piedi, formavano una specie di antro che le acque avevano invaso fin presso la mensa diserta dell'altare; e una moltitudine di ninfee, più ampie e più bianche di quelle su cui avevamo navigato, si addensava come in adorazione a piè della grande Madonna musiva che sola occupava il concavo cielo d'oro. Ella non portava su le sue braccia l'Infante, ma era sola e tutt'avvolta in un'ammantatura di color plumbeo come in un'ombra di lutto; e un profondo mistero di dolore era nei suoi occhi larghi e fissi. Su su per la curva dell'arco le rondini avevano composto una gentile corona di nidi, seguendo l'ordine delle parole scritte in giro. QVASI PLATANVS EXALTATA SVM JVXTA AQVAS. E quivi le tre vergini insieme s'inginocchiarono e pregarono. «Se noi ti lasciassimo in questo asilo, con le ninfee e con le rondini!» pensai guardando Massimilla che nella preghiera pareva inchinarsi sempre più verso la terra. «Tu vi abiteresti come una najade romita che avesse obliato Artemide per adorare la dolorosa divinità novella.» E io imaginava la sua metamorfosi: - compiuti i suoi riti solitarii tra il coro delle rondini, ella s'immergeva nelle acque e discendeva alle radici dei fiori.... Ma nulla veramente quivi ai miei occhi vinceva di bianchezza una nuca quasi oppressa dal peso d'una capellatura più densa dei grappoli marmorei che ornavano la fronte dell'altare. Per la prima volta io vedeva Violante in ginocchio; e quell'atto era così disdicevole alla qualità della sua bellezza, che io ne soffrivo come di una disarmonia; e con una strana inquietudine aspettavo ch'ella si levasse di tra i due paoni simbolici che in mezzo ai grappoli aprivano le loro penne occhiute. Prima delle altre ella si levò, con una di quelle stupende movenze per cui la sua bellezza pareva superar sé stessa in quella guisa che una luce continua sembra crescere se d'un tratto renda una scintillazione. Exaltata juxta aquas! Al ritorno ella venne meco sul fiume, seduta su la piccola prora di contro a me che in piedi spingevo il battello col remo. Un turbamento invincibile mi teneva, mentre mi riapparivano nella memoria la mano imperlata di sangue e il roveto carico di fiori. Da quell'ora lontana, per la prima volta io mi ritrovava solo con Violante, a viso a viso. - Ho una gran sete - ella disse inclinandosi in dietro verso l'acqua con una movenza che nell'esprimere il desiderio pareva quasi agguagliarla all'elemento fluido e voluttuoso. - Non bevete di quest'acqua! - io la pregai, vedendo ch'ella si nudava le mani. - Perché? - Non ne bevete! Allora ella immerse le mani ignude, recise una ninfea, e si chinò a respirarne l'umidità fragrante. Pareva che intorno a noi una trepidazione indistinta invadesse la greggia floreale. Come il sole era caduto dietro le rocce, un riflesso roseo appena percettibile cadeva dal cielo vespertino su l'innumerevole candore. - Guardate le ninfee! - esclamai, fermando il remo. - Non vi sembra che in questo momento abbiano una straordinaria espressione di vita? Ella immerse di nuovo le mani fino ai polsi e le tenne abbandonate, carnei fiori natanti; e, mentre il suo sguardo correva su la moltitudine commossa, il sorriso della sua bocca era così divino che la mia anima volle attribuirgli la virtù del prodigio. Veramente ella era degna di operare tutte le meraviglie e di sottomettere alla sua bellezza pur l'anima delle cose. Io non osavo dir parola, tanto al suo fianco parevami parlante il silenzio. Ma, stando noi chini verso l'acqua, eravamo congiunti l'uno all'altra da un fascino non dissimile a quello che ci aveva accomunati il primo giorno in conspetto della rupe ardente. Non stridevano sul nostro capo gli sparvieri ma garrivano le rondini a volo gittando a tratti dai loro bianchi petti quasi un lampo. - Ebbene? Non ci moviamo? Non avete più forza? - mi disse ella rivolgendosi, con un accento indefinibile d'irrisione, e penetrandomi in fondo agli occhi. - Non vedete che gli altri battelli sono già discosti? Considerò la flottiglia per un poco, corrugando leggermente la fronte. - Anatolia ci richiama - soggiunse. - Affrettatevi! Il Saurgo sembrava allargarsi nel tramonto, dileguarsi in una infinita lontananza, riacquistare la forza della sua correntìa, promettere di condurci in paesi più belli. E in quella creatura sovrana, tutta inclinata verso quel grande e dolce fiume roseo dall'ardor della sete come da un violento desiderio di fluidità conforme alla sua essenza voluttuosa, era tal mistero di bellezza e di poesia che la mia anima si protese verso di lei col più fervente atto di adorazione. - Guardate! - mi disse allora la rivelatrice, mostrandomi lo spettacolo ch'ella avrebbe potuto crear con un gesto. - Guardate! Intorno a noi, su l'acqua scorsa da un leggero brivido, le corolle vive si chiudevano con un moto quasi labiale, esitavano per qualche istante, si ritraevano, si sommergevano, scomparivano sotto le foglie, l'una dopo l'altra o insieme a gruppi, come se dal profondo una virtù sonnifera le attirasse. Larghe plaghe rimanevano deserte, ma talvolta quivi nel mezzo una sola ninfea s'attardava effondendo la sua estrema grazia in quell'indugio. Una vaga malinconia fluttuava su l'acqua nel punto ove scompariva ciascuna delle ritardanti. E sembrava, allora, che pel grande e dolce fiume roseo incominciassero a vaporare i sogni notturni della moltitudine sommersa. Ma su la vetta del Corace fu l'apparizione impreveduta per cui si determinarono le nostre sorti ultimamente. Avevamo fatta una sosta a Scultro per visitarvi l'antichissima badia dove si conservano i resti del mausoleo suntuoso, opera di Maestro Gualtiero d'Alemagna, elevato da una Cantelma a memoria di sé medesima e de' suoi tre figli: da quella magnifica Domina Rita che, sposata a Giovanni Antonio Caldora, fu madre del gran condottiere Jacopo. E io e Anatolia eravamo rimasti ultimi nella cappella umidiccia a contemplare la figura supina del giovine eroe tutto chiuso in arme grave sino alla gola ma scoperto il capo chiomato che riposa così regalmente sul guanciale marmoreo. Poi, dopo un lungo tratto, avendo lasciato le mule in un pianoro, eravamo giunti su per un calle aspro e angusto al ciglio settentrionale del cratere primitivo cangiato nel lago a cui Secli dà il nome. Ai nostri piedi avevamo, da una banda, la valle fulva del Saurgo; dall'altra, i forti sproni che la maggiore giogaia protende nelle sottoposte pianure limitate dal mare in lontananza. Su le nostre teste, dall'immenso cristallo ceruleo pendevano alcune nuvole quasi immobili, coerenti e abbaglianti come acervi di neve. Seduti su i macigni, guardavamo in silenzio. Violante e Massimilla apparivano affaticate; e Oddo non riusciva ancora a calmare il suo ànsito. Ma Anatolia andava cogliendo nelle fenditure i piccoli fiori. Era in me un'inquietudine confusa e ineguale, che talvolta s'addensava fino a opprimermi come un'angoscia. Io sentivo che omai l'ora della scelta mi stava sopra inevitabile e che non potevo più indugiarmi nelle vicende tormentose e dilettose del desiderio e della perplessità né più studiarmi di fondere in una armonia i tre nobili ritmi. Per l'ultima volta in quel giorno le tre beatrici m'apparivano congiunte, sotto la luce d'un medesimo cielo. - Qual tempo era trascorso dall'ora prima in cui salendo per le antiche scalee, nelle voci e nelle ombre virginee come nelle parvenze d'un prestigio, tra i segni dell'abbandono e della dimenticanza, avevo composta la prima musica e compiuta la prima trasfigurazione? - Al dimane il maldurevole incanto sarebbe caduto, e per sempre. Io sentivo omai la necessità di ripetere con la viva voce ad Anatolia le parole già da me rivolte in silenzio alla pura imagine segreta ch'era stata testimone del mio colloquio col padre. - Pur dianzi, nella cappella deserta, al conspetto di quella tomba elevata dalla fede di una virago, non avevamo ambedue comunicato in un medesimo sentimento e in un medesimo pensiero? Pur dianzi io le avevo detto, senza parole: «Anche tu potresti essere una genitrice di eroi, o consapevole. Io so che tu hai raccolta la mia volontà e l'hai riposta nel tuo cuore fedele, dov'ella fiammeggia come un diamante. So che, in sogno, tu hai vegliato tutta una notte misteriosamente sul sonno di un fanciullo. Mentre il suo corpo dormiva con un respiro profondo, tu reggevi nelle tue palme la sua anima tangibile come una sfera di cristallo; e il tuo petto si gonfiava di divinazioni meravigliose.» Io sentivo omai la necessità di scambiare con lei la promessa sicura, già che ella era sul punto di partire con la monacanda e col fratello in ben triste viaggio. Ma la mia inquietudine si faceva grave come un'angoscia, quasi che un pericolo vero mi soprastasse. E non potevo non riconoscerne la causa nel turbamento che Violante mi dava di continuo con ogni suo atto. Era là sotto di noi, nella valle, la ruina di Linturno, simile a un mucchio di pietre bianche, simile a un lembo scoperto del greto, in mezzo alle dolci acque morte; dove ella pur jeri, quasi per un duplice prodigio, aveva incantato le ninfee e la mia anima. Ancora ella m'incantava, se i miei occhi la guardavano. Seduta sul macigno come il primo giorno sul plinto, ella era simile alle statue immortali. Anche una volta io la considerai presente e pur discosta, come in quel giorno; e ripensai: «È giusto ch'ella rimanga intatta. Ella non potrebbe essere posseduta senza onta se non da un dio. Giammai le sue viscere porteranno il peso difformante; giammai l'onda del latte sforzerà il puro contorno del suo seno....» Con un impeto interiore, come per liberarmi da un giogo, balzai in piedi; e, rivolto a colei che andava cogliendo nelle fenditure i piccoli fiori, dissi: - Giacché non siete stanca, Anatolia, volete salire con me fino alla cima? - Eccomi pronta - assentì ella, con la sua chiara voce cordiale; e, accostandosi a Massimilla, le depose nel grembo i piccoli fiori. Violante rimase nella sua attitudine, tenendo fra le dita il suo velo: - impassibile, come se non avesse inteso. Ma io sentivo che le sue pupille non guardavano le cose, e mi turbai come se giungesse sino a me un raggio del fascino emanato dalla profondità occulta in cui era fisso il suo sguardo. - Non tardate a discendere! - fece Oddo con suono di preghiera, mostrando nel suo volto scarno il malessere che gli davano quelle alture: quasi un timore continuo della vertigine. - Noi vi aspettiamo. La cima del Corace insorgeva contro il cielo nuda e acuta come un elmetto, inclinata alquanto verso austro; e il tramite per giungervi correva lungo la costola ripida, angusta quasi come uno scrimolo, ond'erano spartiti nettamente i due pendii. Così difficile era quivi il passo e così periglioso che io offersi ad Anatolia la mia mano per sostegno ed ella vi poggiò la sua mentre vacillava su le asperità della roccia sorridendo. Eravamo già fuor d'ogni vista, liberi e soli, dominatori dello spazio immenso. Ci pareva che ogni respiro purificasse il sangue nelle nostre vene e alleggerisse il peso della nostra carne. E l'aroma essenziale che il fuoco del sole esprimeva dalle rare erbe alpestri, simile a un farmaco possente, accelerava il ritmo della nostra vita. Ci soffermammo, colti da una sùbita ambascia: e le nostre mani, poichè troppo forte s'erano strette, si disciolsero. Io guardai negli occhi la mia compagna, ma ella non sorrise più. Il suo volto divenne grave, quasi triste, come adombrato da un rammarico. - Fermiamoci qui - ella mormorò abbassando le palpebre. - Non posso andare più oltre.... - Ancora un tratto - io le dissi incalzato da un desiderio veemente di giungere - pochi passi ancora, e tocchiamo la cima! - Non posso andare più oltre - ella ripeté, con una voce spenta che non pareva più la sua, passandosi le mani su la faccia come per toglierne qualche cosa che l'ingombrasse. Poi tentò di sorridermi. - Che strana illusione! - soggiunse. - La cima è ancora lontana. Par sempre di toccarla e, come più si sale, più diventa lontana.... Poi, dopo una pausa in cui ella parve ascoltare il suo cuore profondo: - E v'è qualche anima che soffre, laggiù. Volse la fronte oscurata da un pensiero, verso il luogo dove le sorelle aspettavano. - Torniamo in dietro, Claudio - soggiunse con un accento che io non dimenticherò mai perché mai voce umana espresse in sì breve suono un sì gran numero di cose recondite. - Cara, cara Anatolia! - io proruppi prendendole le mani, tutto pieno del sentimento straordinario che mi davano quelle sue semplici parole in cui era per me l'indizio indubitabile d'un atto interiore quasi divino. - Lasciate che prima io vi ripeta quel che già più d'una volta vi ha detto il mio silenzio.... Dove potrei offrire la mia fede più degnamente che qui, in questa altezza, a voi che siete la più alta delle creature, Anatolia? Ella si coprì di pallore, non come chi oda un annunzio di gioia a lungo aspettato e invocato, ma come chi riceva in una parte vitale un colpo invisibile; e, se bene all'apparenza rimanesse immobile, fu gettata in ispirito verso di me da non so qual brivido pauroso, da non so qual movimento istintivo d'orrore - che io non percepii con gli occhi ma con uno di quei sensi ignoti che talvolta si manifestano su la trama dei nervi umani in una vibrazione istantanea e scompaiono per sempre lasciando la coscienza attonita. Ella volse intorno a sé uno sguardo pieno d'inquietudini indefinibili. - Voi parlate come se fossimo soli, - disse smarritamente - come se io fossi sola.... come se io fossi sola.... - Anatolia, che avete mai? - le chiesi, turbato da quel suo turbamento inesplicabile, dall'alterazione profonda del suo volto, dall'incoerenza delle sue parole. E un pensiero balenò su la mia incertezza. - Non forse era stata assalita d'improvviso, ella assuefatta per tanti anni alla sua cupa carcere, ella rassegnata martire fra le antiche mura, non forse d'improvviso ella era stata assalita da quel terrore misterioso, da quella specie di pánico che regna nelle solitudini dei monti ardui e taciturni? - Certo, ella era in balìa del fascino terribile; e il suo spirito vi si smarriva. Un fierissimo spettacolo avevamo ai nostri piedi, da ogni banda, nella cruda luce. La catena delle rupi, tutta palese nella sua sterilità desolata fino agli estremi gioghi, si propagava come una immensa adunazione di cose gigantesche e difformi rimasta per lo stupore degli uomini a vestigio di una qualche titanomachia primordiale. Torri dirute, muraglie fendute, cittadelle abbattute, cupole sfondate, portici pericolanti, colossi mútili, prore di vascelli, dorsi di mostri, ossature di titani, tutte le enormità simulava la compagine formidabile con i suoi rilievi e i suoi anfratti. Così limpide erano le lontananze che io distinguevo ogni contorno come se avessi sotto gli occhi infinitamente ingrandita la roccia che Violante mi aveva mostrata dal davanzale con un gesto creatore. Le più remote punte si disegnavano sul cielo con la medesima asprezza precisa che avevano da presso gli scoscendimenti del cratere al riverbero del sole. Smisurata bocca, il cratere orbicolare si spalancava con una specie di veemenza vorticosa nel suo giro, a similitudine di un gorgo, se bene inerte. Grigio in parte come la cenere, rossastro in parte come la ruggine, era qua e là interrotto da lunghe zone candide e riscintillanti come il sale, che l'acqua adunata al fondo rispecchiava nella sua immobilità metallica. E, di contro a noi, pendulo dall'orlo su l'abisso, simile a un gregge impietrito, era Secli: il villaggio solingo come un eremo, ove un piccolo popolo industre attende da tempo antichissimo a far corde di minugia per gli strumenti di suono. - Voi siete affaticata - io dissi alla cara compagna cercando di trarla verso un macigno che mi pareva potesse almeno da un lato impedirle la vista del vuoto e ridarle col contatto il senso della stabilità. - Voi siete affaticata, Anatolia, e questa fatica è insolita per voi, e questo spettacolo è forse un poco spaventoso.... Appoggiatevi qui, e chiudete gli occhi per qualche minuto. Io sto accanto a voi. Ecco il mio braccio. Saprò ricondurvi senza pericolo. Chiudete ora gli occhi, per qualche minuto.... Ella tentò ancora di sorridermi. - No, no, - ella disse - non vi date pensiero, Claudio. Poi, dopo una pausa, con la voce mutata e divenuta quasi segreta: - È un'altra cosa.... Se chiudessi gli occhi, forse potrei vedere.... Il mio cuore tremava come una foglia a un soffio sconosciuto. E, se bene il volto di Anatolia si fosse ricomposto in una tristezza grave ma calma e per tutta la figura di lei fosse diffuso un sentimento di dominazione sul Male, io per analogie indistinte ripensai le ansie repentine di Antonello e quelle sue inquietudini ch'erano infallibili avvisi e quelle preveggenze che illuminavano i suoi pallidi occhi. - Avete compreso, Anatolia? - io le domandai, prendendole una mano poiché eravamo addossati al macigno l'uno a fianco dell'altra. - Avete compreso che voi, voi sola, siete la compagna che il mio cuore nominò, in quella sera, quando il padre mi baciava la fronte per consentire? Voi vi alzaste e usciste dalla stanza, lieve come uno spirito; e io, non so perchè, imaginai la vostra faccia tutta bagnata di lacrime.... Ditemi se piangeste, Anatolia, e se il mio sogno vi fu caro! Ella non rispose; ma, tenendo io la sua mano, mi parve che il più puro sangue del suo cuore affluisse all'estremità delle sue dita magneticamente. - Quella sera - io soggiunsi per inebriarla di speranza - tornando a Rebursa, vidi brillare la Stella in cima a una delle mie vecchie torri; e tanta fede la vostra presenza aveva infusa nella mia anima, che io considerai il caso come un presagio divino! Da allora, io congiungo due imagini in quello splendore.... Voi sapete quale sia l'altra. Riodo le prime parole che voi mi rivolgeste là su la scalea: parole evocatrici di «una immensa bontà». In tutto quel giorno l'imagine evocata non si distaccò dal vostro fianco per mostrarmi la sua elezione. Ella medesima, in una prossima sera mi accompagnerà alla dimora che fu piena del suo sorriso e che oggi è deserta.... Guardate, laggiù! Ella guardò le torri lontane di Rebursa nella conca profonda ove le nuvole pendule stampavano larghi cerchi d'ombra; ma il suo sguardo trascorse a Trigento, e nell'intervallo i segni di una ineffabile violenza interiore passarono sul suo volto. Ella scosse il capo, sciogliendo la sua mano dalla mia. - M'è vietata la felicità - disse con una voce dolorosa ma sicura, tenendo sempre gli occhi intenti al giardino delle sue pene, alla casa del suo martirio. - Anch'io, come Massimilla, mi sono consacrata; e anche il mio voto è inviolabile. E non è soltanto un atto della mia volontà, Claudio. Ora sento che è un sacrificio necessario, a cui non potrò sottrarmi. Voi avete udito dianzi il suono della mia risposta, quando mi avete invitata a salire con voi fino alla cima. Avete veduto quanto mi paresse leggero da prima il salire con voi, col sostegno della vostra mano. Ma poi.... non ho potuto andare più oltre; non abbiamo raggiunta la cima. Vedete: sono qui, inchiodata a un macigno. Voi mi fate un'offerta di cui voi medesimo non conoscete il pregio come io lo conosco; ed eccomi oppressa da una tristezza tanto grave che temo di non poterla sostenere, io che non ho mai avuto paura di soffrire! Non osavo interromperla nè più toccarla. Una specie di timor religioso mi occupava. Con una commozione più forte di quella che m'aveva sollevato nella sera solenne, pur senza rivolgermi io sentivo palpitare al mio fianco non so che d'infinitamente augusto e arcano come le sostanze divine custodite sotto i veli nei penetrali dei templi. La voce parlava quasi nel mio orecchio, e nondimeno mi veniva da un'infinita lontananza. Semplici erano le parole; ma esse erano proferite su le sommità della vita, là dove l'anima umana non giunge se non per trasfigurarsi in ideale Bellezza. - Guardate, laggiù! Guardate la casa dove sin dal primo giorno noi vi abbiamo accolto come un fratello, dove nostro padre vi ha accolto come un figliuolo, dove voi avete ritrovata intatta la memoria dei vostri cari morti. Guardate quanto sembra discosta! Pure, io la sento congiunta a me da mille legami invisibili ma più forti di qualunque catena. Mi sembra che, anche di qui, la mia vita si mescoli tutta a quel poco di vita che soffre laggiù.... Ah, forse voi non potete comprendere! Ma pensate, Claudio, l'atrocità del destino che ci sta sopra; pensate quella povera madre demente, quel vecchio accasciato ed esausto, quella vittima che trema di continuo su l'orlo della follia, e quell'altra ancora, che sta sotto la stessa condanna, e l'orrore del contagio, e la solitudine, e le angustie.... Ah, voi non potete comprendere! Fin dal primo giorno io ho temuto di rattristarvi; e ho cercato di risparmiarvi le peggiori afflizioni, di nascondervi le peggiori miserie; ho cercato sempre di frammettermi tra voi e la nostra sciagura. Poche volte, o forse mai, voi avete respirato la vera tristezza della nostra casa. Noi vi abbiamo condotto all'aperto, tra i fiori che per voi solo abbiamo ripreso ad amare; e nel nostro giardino abbandonato voi avete potuto far rivivere qualche cosa morta... Ma pensate lo strazio nascosto! Voi non potete vedere; ma io vedo di qui tutto quel che accade là dentro, come se le mura fossero di vetro e io le toccassi con la mia fronte. Pare che la vita sia sospesa: il padre e il figlio sono chiusi nella medesima stanza e non osano uscire e non osano parlare e ascoltano tutti i rumori, e l'uno accresce la sofferenza dell'altro, ed entrambi aspettano il mio ritorno, privi d'ogni forza, e tendono l'orecchio sperando di riconoscere la mia voce e il mio passo. Ed ella è smaniosa, mi cerca per tutti gli anditi, per tutte le stanze, mi chiama ad alta voce, si ferma davanti a una porta chiusa e si mette a origliare o a battere; e, di dentro, le mie due povere anime odono il suo ansare, e sussultano ad ogni colpo, e non sanno se non guardarsi negli occhi, con che strazio, mio Dio! Ella si mise le mani alle tempie con un gesto istintivo, quasi per comprimervi una ripercussione di dolore; mentre tutto il suo corpo, distaccatosi dal macigno, s'inclinava verso il lontano luogo del supplizio. E per qualche istante, stretto alla gola dall'angoscia ch'ella mi aveva comunicato, chino nella sua stessa attitudine, anch'io rimasi sospeso su l'orlo del precipizio, con lo sguardo fisso alla dimora lontana dove quelle anime penavano. - Pensate - ella riprese a dire, con la voce omai rotta - pensate, Claudio, quel che accadrebbe di loro se io non fossi più là, se io li abbandonassi! Anche quando io m'allontano per poco, provo non so che rammarico, non so che rimorso. Ogni volta che varco la soglia per uscire, un presentimento funesto mi stringe il cuore; e mi sembra che, rientrando, io debba trovare la casa piena di grida e di pianti.... Un tremito indomabile ora la scoteva tutta quanta, e i suoi occhi si dilatavano come se una visione truce li riempisse d'orrore. - Antonello... - balbettò; e per qualche istante non potè proferire altra parola. Io la guardava con una indicibile angoscia; e pativo nella mia anima le contratture delle sue care labbra. E la visione ch'era nei suoi occhi passava nei miei; e io rivedevo il volto bianco e consunto di Antonello, e il battito rapido delle sue palpebre, e il suo sorriso penoso, e i suoi gesti disordinati, e le onde di terrore che investivano d'improvviso il suo corpo lungo e magro squassandolo come una canna fragile. - Antonello.... ha tentato di morire.... Lo so io sola.... Nessun altro lo sa; neppure Oddo. Guai! Ella tremava, senza potersi dominare, addossata al macigno. - Una sera, Dio mi avvertì, Dio mi mandò.... Sia lodato sempre!... Entrai nella sua stanza.... e lo trovai.... Soffocata, ella si toccava la gola con le dita convulse smarritamente, come se ora quel laccio stringesse lei medesima: tremante, disfatta, senza più coraggio dinnanzi al ricordo, ella che aveva saputo reprimere le sue grida alla vista del tramortito, suscitare da' suoi propri polsi una forza virile, compiere l'opera senza chiedere aiuto, nascondere in sé l'orribile segreto, vivere poi con la tragica imagine impressa nell'anima, di timore in timore, d'ansia in ansia! Così, nella sua verità sublime, ella mi si rivelava devota disperatamente a un affetto che aveva la sua radice nel più profondo e più sacro istinto dell'essere. La voce del sangue pareva gridare da tutte le sue vene; i legami del sangue tenevano ogni sua fibra. Ella era nata per portare i dolci e tremendi vincoli sino alla morte. Ella era disposta a consumarsi come un olocausto per nutrire la fiamma vacillante del suo focolare. «Di quale inaudito amore amerebbe ella dunque la creatura delle sue viscere?» - Voi parlate d'abbandono - io le dissi facendo uno sforzo penoso per esprimermi poichè ogni espressione di me sembravami inopportuna e debole dinnanzi alla grandezza e alla bellezza di quel sentimento rivelato - voi parlate d'abbandono, Anatolia; e dimenticate che anch'io fin dal primo giorno ho creduto di ritrovare nella vostra casa il mio padre, le mie sorelle, i miei fratelli; e non sapete come anche nel mio cuore sia una pietà filiale e fraterna, non comparabile alla vostra che è sovrumana, ma pur degna di servirla nell'atto.... Ella scosse il capo. - Ah, Claudio - rispose, con un dolente sorriso delle sue labbra aride - la vostra generosità v'illude. Ho ancora l'anima allucinata dalla fiamma dei vostri sogni ma turbata da non so qual violenza contenuta e quale ardore pericoloso che di tratto in tratto apparivano in voi. Una volontà di lotta e di predominio vi agita; e voi vorrete con ogni mezzo costringere la vita a mantenervi le sue promesse. Siete giovine, e fierissimo del vostro sangue, e padrone della vostra forza, e sicuro nella vostra fede. Chi può assegnare un limite alla vostra conquista? Ella aveva infuso nell'ultime parole la virtù della sua voce limpida e calda, come per una sollevazione subitanea; e, dal fremito che n'ebbi, io compresi qual valida incitatrice di energie avrebbe potuto essere ella che, pur nella sua bontà e nella sua pazienza, possedeva l'istinto primario della sua razza imperiosa. - Ma imaginate, Claudio, un conquistatore che tragga dietro di sé un carro pieno d'infermi e che si prepari a combattere contemplando i loro visi consunti, ascoltando le loro lamentazioni! Potete imaginarvelo? Se la vita è crudele, colui che è risoluto ad affrontarla deve necessariamente assumere la qualità della nemica; e ogni impaccio o prima o poi susciterà il suo fastidio e la sua collera.... Ella era riuscita a reprimere l'eccesso della sua commozione; e ancora mi si mostrava nella sua fermezza coraggiosa, parlando senza tremito. - Io stessa, io stessa non diverrei forse un giorno smemorata? non mi sentirei presa tutta quanta dai nuovi affetti, dalle nuove cure, e dall'ebrezza delle vostre speranze? Troppo è grande il compito che voi volete assegnare alla compagna dei vostri sforzi, Claudio. Le vostre parole sono nella mia memoria.... Ahimè, non è possibile alimentare nel tempo medesimo due fiamme! La nuova diventerebbe in breve così vorace che io dovrei sacrificarle tutti i beni della mia anima. E l'antica è così fievole che basta ch'io volga altrove il capo perchè si spenga. Tacque, riabbassando la fronte. Ma con un atto repentino, come assalita di nuovo dalle prime inquietudini, si guardò intorno; e qualche moto delle sue labbre aride mi rivelò la sua sete. Poi si volse verso di me e, fissandomi nelle pupille con una specie di violenza interiore, mi domandò: - Veramente il vostro cuore mi ha scelta? Avete scrutato il vostro cuore sino al fondo? O un'illusione vi fa velo? Mi turbarono così forte quel suo sguardo e quel suo dubbio improvvisi, che io mi sentii impallidire come s'ella m'avesse accusato di menzogna. - Anatolia, che dite mai? Ella si distaccò dal macigno, diede qualche passo incerto; si soffermò come a tendere l'orecchio, inquieta, agitata. - V'è qualche anima che soffre, per queste vie - ripetè con l'accento della prima volta; e restò per alcuni attimi perplessa, mentre la sua mano faceva verso la sua fronte un gesto vago. Poi, rivolgendosi a me, rapidamente, ansiosamente, quasi che ella fosse incalzata e temesse di non aver tempo a pronunziar le parole: - Domani io partirò. Bisogna che io accompagni Massimilla. Non ho il coraggio di lasciarla partir sola col fratello. Bisogna che io l'accompagni fino alla porta del suo ritiro. Ella va a pregare per noi.... So che non va come a una consolazione ma come a una morte; e perciò è necessario ch'io l'assista. Tutto finisce per lei. Io resterò lontana alcuni giorni. Per alcuni giorni una di noi sarà sola a Trigento.... E la primogenita: ha quasi un diritto.... Ella è degna.... Non so; il cuore vi dirà qualche cosa, forse la verità.... Vi giuro, Claudio, che io pregherò, con quanto fervore ho nell'anima, perchè tornando io sappia che tutto fu risoluto secondo il bene d'ognuno.... Chi sa! Forse un gran bene è sopra di voi. Io credo nella vostra Stella, Claudio. Ma per me c'è un divieto.... Non so dire, non so dire.... C'è un'ombra su la mia volontà.... Dianzi m'è venuta una strana paura, e poi.... una tristezza, una tristezza che non conoscevo ancora.... Ella s'arrestò, anelante, smarrita, misera, come se riacquistasse il sentimento dell'infinita desolazione che s'allargava intorno a noi, nell'implacabile arsura. - Anche voi, come soffrite! - mormorò, senza guardarmi. E tendendomi ambe le mani, con il suo sforzo supremo: - Ora, addio! Bisogna tornare indietro. Grazie, Claudio. Ricordatevi sempre di me come d'una sorella devota. La mia tenerezza non vi verrà mai meno.... Voltò il viso perchè gli occhi le si empivano di lacrime; e io le baciai ambe le mani. - Addio! - ella ripetè, facendo l'atto di avviarsi alla discesa; ma vacillò sul sasso. - Vi prego, Anatolia, rimanete ancora! - io supplicai, sorreggendola. - Ancora qualche minuto, qui, all'ombra, perchè possiate riprendere un po' di forza.... La discesa è aspra. - Ci aspettano! Ci aspettano! - ella balbettò, quasi fuori di sè, comunicandomi la sua ansietà frenetica. - Andiamo, Claudio! Mi appoggerò a voi. Se indugiassi ancora, mi sentirei più male, non potrei più dare un passo.... Ah che orribile sete! Io vedevo bene che la sua povera bocca ardeva di sete; e così angosciosa era la pietà che mi stringeva, ch'io mi sarei aperta una vena per dissetarla. Nessuna traccia di acque, intorno. Sole, in fondo al cratere estinto, le acque del lago che parevano piombo incandescente. Rapide imagini mi attraversarono il cervello, come in un delirio di febbre: il grande fiume roseo coperto di ninfee, Violante inclinata sul bordo del battello, il suo volto chino a respirare l'umidità del fiore, la durezza d'un suo sguardo acuita dai sopraccigli contratti.... Ma trasalimmo, sotto un'onda di suono improvvisa che giungeva fino a noi da un'ignota origine. Così grave era il silenzio negli alti deserti, che ci pareva non violabile; e, per lo smarrimento dei nostri sensi, quella infrazione inattesa ci percosse da prima come un fatto straordinario. Anatolia si strinse al mio braccio, interrogandomi con gli occhi dilatati. - Secli - io le dissi, riconoscendo la natura del suono. - Le campane di Secli.... E stemmo in ascolto, l'uno a fianco dell'altra, chini verso il cratere sonoro, nell'ombra che il macigno gettava su le nostre teste. Sonoro come un gigantesco timpano, il cratere vacuo ripercoteva le onde dei metalli vibranti confondendole in un cupo rombo continuo che si propagava per la solitudine di luce indefinitamente. Per tutta la solitudine, ove la materia originale splendeva impietrita nelle sue mille espressioni di furia e di dolore, per la valle fulva solcata dal fiume serpentino, per le propagini alpestri declinanti fino al mare lontano, per ogni luogo la voce di bronzo modulata dalla terribile bocca ignea diffondeva la sua parola misteriosa. Più oltre ancora sembrava giungere, ancora più oltre, nello spazio senza fine, nelle plaghe d'oltremonte e d'oltremare, là dove la mia vista si perdeva stanca, là dove trascorreva come un vento carico di polline un mio pensiero informe e incoercibile ma pur dotato d'un'oscura virtù creatrice. Un gran sentimento confuso - in cui si agitavano innumerevoli cose di dolore e di gioia, di passato e d'avvenire, di morte e di vita - mi travagliava la coscienza e sembrava dilatarla e approfondarla come fa dell'oceano la tempesta. Attonito, io guardai il lago inferno, opaco e inerte come l'occhio cieco d'un mondo sotterraneo; e riguardai il cratere vorticoso in cui l'impeto del fuoco primitivo era rimasto fisso come la contrattura d'uno spasimo estremo rimane talvolta su le labbra del cadavere. Ed il mio sguardo si fermò su le umili case di Secli, su quel fragile nido umano che appena appena si distingueva dalla roccia a cui era sospeso. Ed ebbi la visione fantastica di quel popolo inconsapevole e taciturno, intento da tempo antichissimo a ridurre le viscere degli agnelli in corde musicali destinate ad esprimere nel linguaggio dell'arte le più alte aspirazioni della vita e a inebriarne miriadi di sconosciute anime nel mondo. Continuava, continuava il rombo, senza pause, eguale, nell'aria infiammata. E, poiché la mia compagna era immobile al mio fianco, io non osavo parlare, nè rompere il fascino. Ma d'improvviso ella si rivolse scoppiando in singhiozzi, come se in quel punto ella avesse veduto il termine di un'agonia. Con la faccia tra le palme, contro il macigno, ella singhiozzava disperatamente. - Anatolia, Anatolia, che avete mai? Rispondetemi, Anatolia! Ditemi una sola parola! E, non resistendo allo strazio, feci l'atto di prenderle i polsi per scoprirle la faccia. Udii da presso il rumore d'un passo veloce su le pietre, un respiro affannoso; travidi un'ombra. - Voi, Violante? Ella aveva su per la roccia ripida lo slancio elastico di una fiera, in tutta la persona qualche cosa di ostile e di malefico. Portava il capo tutto avviluppato nel suo denso velo azzurro, per modo che il volto rimaneva nascosto come da una maschera fin sotto il mento e gli occhi rilucevano a traverso il tessuto. Si fermò presso il macigno, ostile, arrovesciando in dietro il capo come chi sia per rimaner soffocato. Ella certo si sentiva soffocare, ma non si sbendò. La veemenza dell'anelito le sollevava il seno e faceva palpitare il velo; un fremito infrenabile le scoteva le mani coperte di guanti lacerati: lacerati forse contro i sassi aguzzi, in qualche caduta perigliosa. - Vi abbiamo aspettato - disse alfine, con la voce rotta che un poco sibilava - vi abbiamo aspettato molto.... Non vedendovi più tornare, io mi sono mossa... per incontrarvi.... Scorgevo il moto delle sue labbra convulse, a traverso il velo; indovinavo la trasfigurazione della sua faccia sotto quella soffocante maschera azzurra ch'ella non voleva sollevare. E l'émpito interiore cresceva così violento d'attimo in attimo, che non m'era possibile disserrar le labbra. Ma sentivo che non su me soltanto la necessità del silenzio era caduta. Passava continuo su le nostre teste il rombo del bronzo, ripercosso dal cratere. Anatolia aveva cessato di singhiozzare; ma le tracce del pianto restavano sul suo volto, e rosse apparivano le palpebre ch'ella teneva socchiuse. - Andiamo - disse piano, senza guardare nè me nè la sorella. E in silenzio ci avviammo giù per la discesa, accompagnati dal rombo, nella desolazione della luce. Straziante discesa, che pareva non dovesse aver mai fine! Elle andavano innanzi o rimanevano in dietro, secondo le vicende del cammino; e io sorreggevo ora l'una ora l'altra, se vacillavano. Ad ogni tratto il cuore mi si stringeva, per la paura di vederle mancare. Quando le campane di Secli tacquero, avemmo un sollievo illusorio; ma sùbito ci accorgemmo che nella quiete dell'aria l'affanno palese dei nostri respiri aumentava la nostra sofferenza, e ci parve di udire troppo distintamente il rombo delle nostre vene. Con una pertinacia selvaggia, sotto la sua maschera azzurra Violante resisteva alle soffocazioni. Certo, una sete orribile le ardeva la gola: come a me, come alla sorella. Quando nel soccorrerla le prendevo la mano, vedevo per le lacerature del guanto un po' del suo sangue su la pelle scalfita; e, con un turbamento profondo, ripensavo il roveto carico di fiori. Più tardi, nel pianoro dove i miei uomini attendevano con le mule e dove sostammo arsi dalla sete e affranti dalla fatica, io composi per l'ultima volta in una armonia infinitamente bella e dolorosa la bellezza e il dolore delle tre principesse. Non erano elle nel chiuso giardino, ma pur le cingeva una lapidea chiostra degna delle loro anime e dei loro fati; poiché grande era e singolare l'aspetto dei luoghi intorno. Le rocce disposte in cerchio e digradanti davano imagine d'un colosseo construtto per opera ciclopica, corroso da secoli e da intemperie senza numero ma improntato ancora di stupende vestigia. Frammenti d'una scrittura sconosciuta vi apparivano, incomprensibili enigmi della Vita e della Morte; le vene tortuose della pietra conducevano l'essenza d'un pensiero divino; e nelle inclinazioni delle moli informi eravi un segno come nei gesti dei simulacri perfetti. Quivi sostammo, quivi io raccolsi l'ultima armonia. Un uomo della gleba - che somigliava colui il quale aveva reciso col suo ferro adunco i rami del mandorlo fiorito - ci condusse a una sorgente nascosta nella cavità di una rupe. La vena scaturiva mormorando, limpida e glaciale; e su l'acqua galleggiava una tazza rustica di scorza, fenduta e priva del fondo, simile al guscio inutile d'un frutto. Io offersi ad Anatolia un'altra tazza che l'uomo aveva portata seco. Ma Violante, senza attendere, si scoperse la bocca e, chinandosi su la polla vivida, bevve a lunghi sorsi come una fiera. Vidi la sua bocca e il suo mento stillanti, quando ella si sollevò; ma subito ella si volse e riabbassò il lembo del velo. Così velata, sedette su la pietra più vicina alla sorgente selvaggia che aveva per lei una troppo tenue canzone; e la sua attitudine evocò nel mio spirito tutti gli incanti delle sue fontane. Pur nella stanchezza, ella non s'abbandonava; ché anzi ora appariva quasi rigida, eretta da un orgoglio muto e ostile. Anche una volta tutte le cose intorno riconoscevano la sovranità della sua presenza: segrete analogie congiungevano i circostanti misteri al suo mistero. Anche una volta ella pareva respingere il mio spirito verso le lontananze del tempo, verso le antiche imagini della Bellezza e del Dolore. Ella era presente e pur discosta. E in silenzio pareva significarmi, come la principessa Dejanira: «Io posseggo, chiuso in un vaso di bronzo, un antico dono d'un vecchio Centauro.» Anatolia s'era seduta presso il fratello pensieroso; e cingeva con un braccio gli omeri di lui, mentre la sua fronte pareva a poco a poco serenarsi come pel salire d'una luce interiore. Massimilla ascoltava forse la voce tenue e inestinguibile della polla: a sedere, con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco. Su le nostre teste il cielo non conservava delle sue nubi se non qualche lieve traccia simile alla poca cenere bianca dei roghi consunti. Il sole accendeva in giro i culmini delle rocce, rilevando nell'azzurro i loro lineamenti solenni. Una grande tristezza e una grande dolcezza cadevano dall'alto nella chiostra solitaria, come una bevanda magica in una coppa rude. Quivi riposarono le tre sorelle, quivi io raccolsi la loro ultima armonia. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Le Vergini delle Rocce", Settimo migliaio, Fratelli Treves Editori, Milano, 1896 ( Vedi ) |
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